Se la Nazionale femminile di Milena Bertolini (al contrario di quella di Mancini) si è qualificata per i Mondiali della prossima estate in Australia e Nuova Zelanda e quarantamila spettatori in Italia assistono oggi alle gare di calcio femminile, una piccola parte del merito va anche a un gruppo di coraggiose ragazze che nell’aprile 1933, giusto novanta anni fa, sfidarono le convenzioni dell’epoca e le rigide regole del Regime fascista dando vita al primo club femminile in Italia. Il Gruppo Calcistico femminile milanese. Siamo nella Milano anni Trenta e nel cuore di una passione calcistica che sta travolgendo il Paese. Il Duce "primo sportivo d’Italia" ha capito benissimo che attorno al calcio si può aggregare il consenso molto più facilmente che con la politica, la cultura o la scuola. Oggi si chiama sportwashing, allora era propaganda.
Mussolini inaugura stadi in giro per l’Italia, dal Moretti di Udine al Berta di Firenze, dal Littorio di Trieste al Mussolini di Torino. Non c’è molta fantasia nei nomi, ma gli stadi spuntano come funghi. Il Duce comunque si appassiona: più che al tennis, che imparerà da Mario Belardinelli, il padre dell’ItalDavis che vinse quarant’anni dopo in Cile la sua unica Insalatiera. E ottiene l’organizzazione nel nostro Paese dei campionati Mondiali, che avevano conosciuto nel 1930 la loro prima edizione. Affida a Vittorio Pozzo, un piemontese sopravvissuto alle trincee della Prima guerra mondiale, la selezione e la guida della Nazionale che con tanti talenti e qualche oriundo (i bisnonni di Retegui) di lì a qualche mese avrebbe mandato in visibilio l’Italia conquistando la sua prima storica Coppa del Mondo.
La storia di queste ragazze, raccontata in un libro delizioso di Federica Seneghini ("Giovinette, le calciatrici che sfidarono il Duce") inizia per gioco, ma diventa ben presto un caso politico. Le donne inquadrate dal regime come "madri" vocate a combattere l’iponatalità possono rischiare la salute e dedicare il proprio tempo al calcio? Ovviamente no. A Milano l’euforia è però incontenibile. Nel 1930 l’Inter, guidata dall’ungherese Arpad Weiszl, poi deportato e morto ad Auschwitz, aveva vinto il primo campionato a girone unico. I primi calci le giovani milanesi li danno alla domenica al parco, mentre i genitori discutono dell’incarico affidato da Hindenburg a Hitler. Leandro Arpinati, l’onnipotente capo dello sport fascista, presidente della Figc e del Coni, aveva già incoraggiato il nuoto femminile in vista delle Olimpiadi di Berlino del 1936 e inizialmente vide di buon occhio il contributo dato da queste ragazze all’entusiasmo nazionalista per il football, anzi per l’italianizzato "calcio".
Le Sara Gama di allora si chiamano Rosanna Strigaro, Luisa e Rosetta Boccalini, Wanda Torri, Maria Lucchese. Trovano una sede in un negozio di vini e un allenatore. Scrivono lettere ai giornali e ai calciatori più conosciuti, molti dei quali le incoraggiano, in assenza dei social, con telegrammi entusiastici. Le regole però sono ferree. Il Regime accetta il calcio femminile, ma solo a porte chiuse. Si gioca con gonne sotto il ginocchio e calzettoni alti, e con palloni microscopici. Viene imposta una curiosa visita medica ad hoc.
Col tempo verrà introdotto il portiere obbligatoriamente uomo, il massaggiatore invece è donna. I tempi sono due da 15 minuti con un intervallo di 20. Le ragazze sono divise dal tifo: metà interiste e metà milaniste. Così, per non scontentare nessuno, si gioca con la maglia della Juventus. Altri tempi davvero. Fatto sta che a giugno si arriva alla prima amichevole ufficiale: giusto 90 anni prima del debutto delle azzurre la prossima estate contro l’Argentina (che al maschile è campione del mondo) ad Auckland nel Mondiale dove non siamo mai andati oltre i quarti di finale (nel 2019 e nel 1991), non qualificandoci nemmeno dal 2003 al 2015. Ma oggi è un’altra storia, una storia nata nell’aprile 1933.