Le 17.58 del 23 maggio del 1992. Quell’orario scandisce tragicamente la storia contemporanea dell’Italia e le due vite di Giuseppe Costanza, l’autista di Giovanni Falcone, che è sopravvissuto alla strage di Capaci. Perché c’è una prima vita e una seconda vita, quella da superstite, la più difficile.
Chi era Giuseppe Costanza prima di quel 23 maggio?
"Uno qualunque che faceva con passione e impegno il suo lavoro – racconta –. Sono entrato all’Ufficio Istruzione di Palermo nel 1984".
E quando conobbe Falcone?
"Dopo una settimana che ero lì, lavoravo all’accoglienza, finché una segretaria mi chiama e mi dice che c’è il giudice Falcone che vuole vedermi".
Si ricorda ancora quel primo incontro?
"E come potrei dimenticarlo. Entro nell’ufficio di Falcone, un bunkerino, e lui che aveva ancora la barba lunga mi chiede a bruciapelo se ero disponibile a guidare la sua auto. Rimango sorpreso".
Ma non le ci volle molto per capire cosa significava guidare l’auto del magistrato nemico numero uno della mafia.
"Mi basta il primo giorno infatti. Ogni volta a precedere l’auto blindata che guido c’è un’auto blindata della scorta e dietro un’altra auto blindata. Poi ci sono le auto civetta di polizia e carabinieri che anticipano il nostro percorso. E a volte anche un elicottero. Si viveva così, a Palermo, in quegli anni. Sempre in tensione".
Ma non le tremavano le mani ogni volta che le appoggiava sul volante?
"Ci si abitua a convivere con la paura. A spaventarmi di più, però, erano le gallerie nell’autostrada verso Punta Raisi. Ogni volta che entravo in quei tunnel, che mi sembravano infiniti, avevo paura che potesse succedere qualcosa lì dentro".
Successe invece fuori, quel pomeriggio del 23 maggio del 1992.
"Ed è per questo che penso che dietro a quell’attentato ci siano delle menti raffinatissime come le chiamava il dottor Falcone. Non può essere stato pensato da un macellaio. Dopo trent’anni hanno individuato solo gli esecutori materiali".
Torniamo a quel giorno.
"Falcone mi chiama la mattina del 23 maggio alle 7 del mattino, dicendomi che sarebbe arrivato a Punta Raisi alle 17.45 da Roma".
Ma la chiamava direttamente al telefono?
"Sì, poi dovevo essere io a comunicare alla scorta orari e come muoversi".
Non si fidava o aveva una cieca fiducia in lei o entrambe?
"Questo, decida lei. Però lui faceva così".
Atterra l’aereo a Punta Raisi.
"In perfetto orario. Ci affianchiamo con le nostre auto all’aereo e facciamo salire in auto Falcone e la moglie, Francesca Morvillo. La signora Morvillo soffriva il mal d’auto e preferiva stare davanti. Così Falcone decide di guidare lui e io mi metto dietro, nel posto centrale".
Qual è l’ultimo ricordo che ha prima di risvegliarsi in ospedale?
"Falcone che stacca le chiavi dal cruscotto dell’auto, perché gli avevo chiesto le chiavi dell’auto per il lunedì. È distratto, non si rende conto di quello che sta facendo e io gli dico: “Dottore, così ci ammazziamo“. L’auto rallenta per un istante, lui guarda la moglie che annuisce e sorride. Reinserisce le chiavi. E poi mi risveglio in ospedale".
Il tritolo, il fumo, il cratere sull’autostrada di Capaci e cinque morti.
"Questo lo scoprirò solo in ospedale e dopo parecchi giorni. Ma quel gesto improvvido del giudice, mi ha salvato la vita, perché l’auto su cui viaggiavamo è finita contro il blocco dei detriti che si era creato dall’esplosione che aveva inghiottito l’auto davanti".
Quando gli hanno detto della strage?
"Per molti giorni mi hanno dato per morto e quando mi sono risvegliato, hanno iniziato a dirmi che cosa era successo. E appena uscito dall’ospedale sono voluto andare subito a Capaci".
Perché?
"Perché era l’unico modo per affrontare subito la situazione. Altrimenti non sarei più riuscito a passare su quell’autostrada".
E adesso ogni volta che ci passa?
"Ogni volta che ci passo guardo in alto a quella collinetta e non si può rimuovere una cosa del genere".
Vivere da sopravvissuto a una strage epocale è impossibile?
"Impossibile no, ma è difficilissimo. Anche quando meno te lo aspetti, l’incubo ritorna. Si fa avanti. E dopo 30 anni è ancora così. Soprattutto al pensiero che verità e giustizia non ci sono ancora. Pienamente".
Chi era Giovanni Falcone?
"Un grande magistrato e un grande uomo. Le racconto quello che accadde dopo il fallito attentato all’Addaura".
Era il 1989.
"E mi chiese se avessi qualche problema in famiglia. Aveva capito alla perfezione quello che stava accadendo a casa mia, dove subivo la pressione per questo lavoro che era fonte di preoccupazioni per i miei familiari, perché c’era sempre la paura che accadesse quello che poi è accaduto a Capaci. Ma io non riuscivo a mollarlo, perché vedevo l’impegno che metteva nel suo lavoro e il rispetto che aveva per la sua scorta".
C’è una foto in cui Oscar Luigi Scalfaro, appena eletto presidente della Repubblica, è accanto a lei immobilizzato nel letto d’ospedale. Che cosa le disse?
"Nulla. Mi ha preso la mano e l’ha baciata. Quella volta lì ho sentito davvero lo Stato vicino, poi non è più successo. Poi ho fatto i conti con la burocrazia, pensi che per dieci anni mettevo solo una firma all’ingresso e all’uscita dell’ufficio, senza fare nulla per tutto il giorno. Sono stato costretto a incatenarmi davanti al tribunale per vedere riconosciuti i miei diritti sul lavoro. Avevo fatto il mio dovere, avevo rischiato la mia vita per lo Stato. Eppure mi avevano dimenticato. Gliel’ho detto non è facile vivere da superstite".
Il 23 maggio sono trent’anni dalla strage di Capaci, che cosa farà?
"Ho fatto nascere con i miei figli una fondazione a mio nome per non disperdere la memoria di quella strage. E il 23 maggio lo passerò a Palermo a raccontare ai ragazzi chi era Giovanni Falcone e che cosa accadde quel giorno a Capaci".
L’ha già fatto anche con i suoi nipoti.
"Sì, sanno cosa faceva il loro nonno e sanno chi era Falcone. Ho 75 anni, la mia vita è agli sgoccioli e bisogna pensare sempre alle nuove generazioni".