Venerdì 14 Giugno 2024
ALESSANDRO D’AMATO
Cronaca

Falcone 32 anni dopo. L’ex ministro Martelli: "Svelò i segreti della mafia come uno Stato parallelo"

L’ex Guardasigilli chiamò il giudice a guidare l’Ufficio Affari Penali del ministero. "Il Pci lo rispettava, la rottura arrivò quando il partito si legò a Leoluca Orlando. Riina sembrava un contadino, ma Giovanni dimostrò che era il capo dei capi"

1991: l'allora ministro della Giustizia, Claudio Martelli, con Giovanni Falcone

1991: l'allora ministro della Giustizia, Claudio Martelli, con Giovanni Falcone

Roma, 24 maggio 2024 – "Ho conosciuto Giovanni Falcone nell’aprile 1987. Da capolista del Psi alle elezioni in Sicilia la prima persona che volli incontrare fu proprio lui. All’epoca era in corso il maxiprocesso e io avevo presentato il referendum sulla giustizia giusta. Mi colpì subito il suo garbo nei modi". Claudio Martelli, braccio destro di Bettino Craxi nel Partito socialista e soprattutto ministro della Giustizia dal 1991 al 1993, ricorda così la prima volta che incontrò il giudice ucciso da Cosa Nostra a Capaci. "A un certo punto gli chiesi se non ci fosse il rischio che a Palermo si ripetesse quello che era successo al maxiprocesso di Napoli, dove si scoprirono 120 errori giudiziari di carattere materiale. Mi rispose che loro non ne avevano fatti. Perché sapevano che qualunque errore poteva portare al fallimento del processo".

E in effetti arrivarono 19 ergastoli e pene detentive per un totale di 2665 anni di reclusione, poi quasi tutte confermate in Cassazione.

"Già. Poi gli chiesi se fosse vero che quel Totò Riina che si vedeva in tv e sembrava un contadinotto era il capo di Cosa Nostra. E lui mi rispose: “Vede, questo che a lei sembra un contadino è forse il boss mafioso più efferato della storia. Non solo per gli omicidi commessi con le sue mani, ma perché ha prodotto una sistematicità nell’uccidere senza precedenti. E poi è a capo di un’organizzazione strutturata“. Cominciò a spiegarmi la base della famiglia, i mandamenti, le province, la Commissione regionale. Gli risposi che sembrava l’organizzazione di un partito. Lui sorrise e rispose: “Oppure dello Stato“. E mi disse che la mafia è uno Stato parallelo".

Quando lei chiamò Falcone al ministero il Pci-Pds e il sindaco di Palermo Leoluca Orlando lo accusarono di connivenza con la politica. Perché?

"Sicuramente in parte c’era la concorrenza politica tra Pci e Psi. Ma la rottura tra Falcone, che non è mai stato vicino ai comunisti, e il partito – che lo rispettava e lo aveva valorizzato –, ci fu quando il Pci si consegnò mani e piedi a Leoluca Orlando Cascio. Il sindaco denunciò Falcone al Csm, che lo processò. Uno dei consiglieri a un certo punto chiese perché Orlando avesse questa ostilità nei suoi confronti; Giovanni rispose che forse dipendeva dal fatto che durante le indagini sugli appalti di Palermo era spuntato Ciancimino, che era “tornato a imperare“ sul Comune. Ecco perché Orlando si arrabbiò con Falcone. E reagì in stile siciliano".

All’epoca, però, c’erano forti perplessità anche sui risultati elettorali del Partito socialista in Sicilia, ricorda?

"Ricordo che all’epoca il segretario regionale del partito Nino Buttitta era furioso perché padre Pintacuda aveva detto che l’anno prima alle elezioni avevamo preso voti di mafia. I socialisti avevano il più lungo elenco di morti assassinati da Cosa Nostra in Sicilia. È vero, conquistammo molti voti, ma il 1987 è l’anno del record di voti del Psi in tutta Italia, dopo quattro anni di governo di Craxi. Eravamo sulla cresta dell’onda".

Paolo Borsellino disse che "il Paese, lo Stato e la magistratura, che forse ha più colpe degli altri, cominciarono a far morire Falcone nel gennaio del 1988". Perché?

"Perché il Csm lo bocciò per far valere il principio dell’anzianità e promuovere Antonino Meli a capo dell’ufficio istruzione di Palermo. Giovanni ai colleghi disse: “Mi avete consegnato alla mafia, perché adesso Cosa Nostra sa che non mi vogliono neanche i miei. Adesso sanno che possono eliminarmi anche fisicamente“. E quando ad agosto ci fu l’Addaura Gerardo Chiaramonte, presidente comunista della commissione Antimafia raccontò che nei salotti buoni della borghesia palermitana il sindaco Orlando e i suoi amici se la ridevano di Falcone dicendo che l’attentato se l’era fatto da solo. E lui quando lo venne a sapere reagì con il suo stile ironico e sornione: “Ma guarda un po’: mi fanno un attentato, e se fallisce è colpa mia“".

A proposito di quegli anni, a Firenze Mario Mori è indagato per non aver indagato dopo aver saputo dell’intenzione di Cosa Nostra di attaccare i monumenti.

"Spero che sia l’ultimo capitolo della persecuzione contro Mori, che è iniziata il giorno stesso della cattura di Totò Riina con la vicenda della mancata perquisizione della villa".