di Elena Comelli
Fumata nera. Il cielo su Autostrade non si schiarisce, dopo la proposta di acquisto di Cassa depositi e prestiti (Cdp), che vorrebbe comprare i 3.000 chilometri di autostrade da Atlantia, controllata dalla famiglia Benetton, appoggiandosi su due fondi esteri, l’americano Blackstone e l’australiano Macquarie.
Atlantia, che ha l’88% di Autostrade per l’Italia (Aspi), non è convinta della proposta, ma è disposta a continuare le trattative fino al 27 ottobre, anche se il periodo di esclusiva riservato a Cdp è scaduto domenica.
Anche la politica storce il naso. In base all’offerta di Cdp, si profila infatti la costituzione di un veicolo societario in cui confluirebbe l’88% di Aspi in cui Cdp partecipa con il 40% delle azioni, mentre i fondi americano e australiano avrebbero il 30% ciascuno di quella quota. Il restante 12% di Aspi resterebbe nelle mani della tedesca Allianz e del fondo cinese Silk Road Fund.
I 3.000 chilometri di rete autostradale sarebbero così controllati da fondi esteri, per una quota che si avvicinerebbe al 70%. "Stiamo mettendo la nostra principale infrastruttura autostradale nelle mani di fondi americani, australiani, cinesi e tedeschi", ha ammonito il senatore azzurro Maurizio Gasparri. Gli ha fatto eco Mariastella Gelmini, capogruppo di Forza Italia alla Camera: "Oltre 3mila chilometri della nostra rete autostradale sarebbe, dunque, controllata da fondi esteri. Il tutto condito da un lungo stop degli investimenti e da ripercussioni su manutenzione e lavoro".
Sulla stessa linea Matteo Salvini, che accusa: "Il governo sta consegnando la stragrande maggioranza delle quote di Autostrade in mani straniere". D’altra parte mettere in piedi una simile operazione richiede il supporto di investitori dalle importanti capacità finanziarie, visto che ormai in Italia investitori privati con le spalle larghe ne sono rimasti ben pochi. Il fondo infrastrutturale F2i al momento non è al tavolo della trattativa, anche perché abituato a investire da azionista di maggioranza in progetti industriali di cui è responsabile. Se poi le fondazioni azioniste dovessero premere per un intervento, la cosa verrebbe valutata.
Al momento, il punto di caduta per Cdp sarebbe avere una quota complessiva di Aspi intorno al 30-35% in trasparenza, che le consentirebbe di comandare lo stesso, sul modello di quanto avviene con Terna e Snam. Per la holding dei Benetton, che devono fare i conti anche con gli altri azionisti, a questa proposta manca un elemento essenziale: l’offerta preliminare non dà indicazioni di prezzo. La valutazione sarà il tassello chiave che verrà definito una volta identificato il potenziale sconto che incorpori i rischi connessi alle possibili cause legate al crollo del Ponte Morandi.
Le indiscrezioni circolate nei giorni scorsi parlano di una valorizzazione di Aspi di circa 9 miliardi di euro, tra capitale e debito, che si tradurrebbe per l’88% in una cifra di poco inferiore agli 8 miliardi. Resta il fatto che lunedì il consiglio di Cdp si è incartato proprio sulle due questioni fondamentali: la governance e il prezzo. Sembra che i fondi esteri non gradiscano una governance sbilanciata su Cdp, pur avendo loro, insieme, la maggioranza azionaria della società.
Sul fronte opposto, Atlantia deve fare i conti con Tci. Il fondo britannico, che valuta Aspi 10-12 miliardi, ha infatti aumentato significativamente la propria partecipazione nel capitale della holding, portandola oltre la soglia rilevante del 10%, proprio per avere maggiore peso nell’assemblea del 30 ottobre, soprattutto nel caso in cui venga ricevuta un’offerta non soddisfacente da parte di Cdp. Il fondo guidato da Chris Hohn, in assenza di un processo competitivo e di un’offerta attrattiva, opterebbe per la scissione e quotazione di Aspi in Borsa.