Martedì 7 Maggio 2024

Coronavirus, il diario dell'infermiera: "La notte in cui è finito l'ossigeno"

"Lavoro in subintensiva, il Purgatorio. Si piange tutti i giorni. Soprattutto quando devi scrivere tre lettere, NCR, non candidato alla rianimazione"

Infermieri al San Paolo di Milano

Infermieri al San Paolo di Milano

Milano, 13 marzo 2020 - Gli sguardi. L'unico modo per comunicare. Per trasmettere i sentimenti, i bisogni. Il contatto tra chi lavora con una mascherina e chi è in un letto sotto un casco, per riuscire a sopravvivere al Coronavirus.

Maria Cristina Settembrese, 53 anni, infermiera infettivologa all'ospedale San Paolo di Milano, ci racconta la sua guerra contro il coronavirus, le sue notti in corsia, in quello che definisce un Purgatorio. Un reparto di terapia subintensiva. Finora un po' trascurato dalle cronache, quasi che quel sub ci avesse dato l'idea che la situazione era meno grave. Ascoltate, invece.

Due notti fa, Maria Cristina e le sue colleghe con uno pneumologo di turno hanno assistito da soli 15 pazienti. Dieci sotto il casco più grande per chi è in condizioni critiche, due con quello più piccolo e tre anziani sotto morfina, nessuna speranza di sopravvivere. Malati che hanno tra i 50 gli 80 anni, in prevalenza sono sessantenni. Sacrificio, abnegazione, turni massacranti, mangiando quasi niente. Senza pace, con la necessità di essere sempre pronti per un'emergenza improvvisa. 

Come quando, racconta l'infermiera, "alle 5.30 del mattino ho sentito come l'allarme di una bomba e ho visto una luce rossa che lampeggiava. Non ho mai sentito nulla del genere in 30 anni di professione". Perché mai nulla del genere era accaduto. "Abbiamo acceso le luci e ci siamo accorti che eravamo in riserva di ossigeno". Cosa scatta in quei momenti nella mente di un'infermiera che sta vivendo in trincea i giorni del coronavirus? "Ci siamo guardati e abbiamo pensato chi rianimare per primo, nel caso. Forse i più giovani, di 48-50 e 61 anni". Dubbi terribili. 

Ma per fortuna è finita nel migliore dei modi, "abbiamo chiamato l'ufficio tecnico e in mezz'ora sono arrivate due squadre. Hanno messo l'ossigeno nel pilone davanti all'ospedale. I pazienti non si sono resi conto quasi di nulla. Il casco che hanno in testa fa un rumore devastante per loro e anche per noi. E poi suona sempre, quando suona dobbiamo correre". Ecco, nei giorni dell'epidemia impariamo a familiarizzare con parole finora sconosciute. E con lo strazio di chi a volte si sente impotente.. "Qualche giorno fa - confida l'infermiera - abbiamo mandato in rianimazione un 42enne. Mentre gli stringevo la mano lui mi implorava, ditemi che mi sveglio, ho due bambini a casa. La mia mascherina si è riempita di lacrime. Oggi si piange tutti i giorni. Soprattutto quando devi scrivere tre lettere, NCR, non candidato alla rianimazione".

 Ma quali sono i sogni di questi eroi? Maria Cristina Settembrese è molto diretta: "Avere più presidi per proteggerci in reparto e l'aiuto di altri colleghi. Siamo al limite delle forze. Avere uno stipendio più alto perché ci sentiamo umiliati per quello che prendiamo rispetto alle nostre responsabilità. E quando tutto sarà finito, andare al mare e dimenticare".

Intanto nel Purgatorio certe mattine all'alba arrivano le telefonate dell'amore. "Sono la figlia di... come sta mio padre?". "Non si preoccupi, torni a dormire, sta bene". Si chiama per raccomandarsi,  "mio papà ha perso gli occhiali, non riesce a scrivere i messaggi da sotto il casco perché non vede bene. Vorrebbe salutare il nipotino, per favore potrebbe portargli una lente di ingrandimento, è nello zaino...". Come no, fatto.  E lui così felice da là  sotto,  in quel rumore infernale che tutti si augurano gli salverà la vita,  manda un bacio all'infermiera. Ci sono idealmente tutti gli italiani, con lui.