di Viviana
Ponchia
Il migliore amico dell’uomo è uscito misteriosamente in salute dall’apocalisse, ma non è cambiato. Conserva il suo buon carattere, scodinzola, si lascia accarezzare. E potrebbe darci una lezione. Su come continua la vita oltre il limite del disastro nucleare, sulla capacità di adattamento del Dna alle radiazioni e dei sopravvissuti a un ambiente ostile che nessuno oserebbe più chiamare casa. Ci avevano consigliato di tenere in alta considerazione topi e scorpioni. I ragni e i moscerini della frutta. Gli scarafaggi soprattutto, presenti sulla terra da 350 milioni di anni, passati attraverso ogni tipo di cataclisma e per questo destinati a essere gli unici eredi diretti del pianeta. Invece a darci qualche indicazione e speranza sono i cani, la popolazione stanziale in quella che dopo il disastro alla centrale di Chernobyl del 26 aprile 1986 viene ancora chiamata "zona di alienazione". Dopo tanti anni è ancora tutto un divieto, la lunga permanenza sconsigliata. Resistono sparpagliate qua e là in decine di piccoli centri abitati circa 200 persone, per lo più anziane: sono i "samosely", gli auto coloni, nostalgici coraggiosi che non partirono mai o tornarono presto sulle loro terre contaminate. Ma è dentro ai mille metri quadrati transennati attorno alla centrale nucleare che si assiste a un felice paradosso: quel posto velenoso off-limits per gli esseri umani è diventato la terra promessa di ottocento cani che ci vivono indisturbati. E da quel giorno di aprile si accoppiano, si riproducono, mettono su famiglia e conservano il dono dell’ospitalità quando qualche bipede va a ficcare il naso sull’enigma della loro resistenza.
I cani di Chernobyl. Abbandonati dai padroni quando l’Unione Sovietica organizzò in fretta e furia lo sgombero della popolazione nel raggio di 30 chilometri in quello che oggi è Ucraina ma fu inferno, a pari merito con Fukushima nel 2011. Hanno contato almeno quindici tribù geneticamente identificabili che non hanno mai lasciato il territorio, tramandando alle nuove generazioni il privilegio e l’arte del presidio.
Sono in buona salute, non hanno ceduto all’istinto di incrociarsi con gli estranei fuori dalle recinzioni e nemmeno a una selvaggia introversione. Semplicemente tirano avanti come se niente fosse successo, se qualcuno va a trovarli abbaiano persino di contentezza. E fanno la felicità degli scienziati che grazie a loro potranno studiare gli effetti della costante esposizione a livelli di radiazioni sopra la soglia di sicurezza. Sopravvissuti due volte. Alla tragedia nucleare e all’abbattimento selettivo deciso dalle autorità per contenere la contaminazione. I soldati andavano a stanarli casa per casa, sparavano e seppellivano. Ma sopra il gigantesco cimitero dove le ossa degli avi si mescolano al fall out radioattivo prosperano i discendenti di chi ce l’ha fatta con la complicità degli addetti alla bonifica della centrale.
Gruppi di volontari come Clean Future Fund forniscono cibo e assistenza veterinaria se serve. Dal 2017 Timothy Mousseau, esperto di ecologia evolutiva del National Institute of Health dell’Università del South Carolina, li seda con la cerbottana per prelevare campioni di sangue (ospitali sì ma pur sempre randagi, allergici a siringhe e aghi). "Si tratta di un vero e proprio armageddon nucleare con qualcosa di orwelliano – ammette lo scienziato –. Ma per noi è estremamente utile". Studiare quei cani significa calcolare i danni a lungo termine di chi ha lavorato in un ambiente contaminato. Capire come si sono adattati selezionando per generazioni i geni che conferiscono resistenza alle radiazioni, ma anche ad altri fattori stressanti come il freddo e la fame. Aiutare eventualmente in futuro gli astronauti che andranno su Marte. Tutte cose che a uno scarafaggio non si possono chiedere (anatomia troppo semplice, non comparabile a quella umana) e a un moscerino della frutta nemmeno.