Dopo otto mesi di guerra Benjamin Netanyahu è a un bivio vedendosi costretto a scegliere se puntare a un’intesa per una tregua duratura a Gaza che consenta di recuperare almeno una parte degli ostaggi ancora in vita (come gli consigliano caldamente gli Usa), oppure marciare ad oltranza alla ricerca di quella che definisce "una vittoria assoluta" su Hamas. Se fermasse la macchina bellica la parte più militante della sua ’coalizione delle destre’, forte di 14 deputati, potrebbe lasciare il governo. A Joe Biden è stato chiesto se Netanyahu voglia prolungare il conflitto per garantire la propria sopravvivenza politica. "C’è ogni ragione perché la gente giunga a quella conclusione" ha replicato il presidente. In seguito ha precisato che stava solo menzionando l’opinione dei critici di Netanyahu, non la propria. Il premier israeliano progetta un blitz a Washington per esprimere di persona le proprie ragioni al Congresso. Nel frattempo, però, sia sul fronte tregua sia sul fronte libanese, la situazione rischia di precipitare. Hamas ha fatto sapere di essere "disposta a un accordo solo con un cessate il fuoco permanente da parte dell’esercito israeliano". Herzi Halevi, capo di Stato maggiore dell’Idf, sostiene invece che "ci stiamo avvicinando al punto in cui devono essere prese decisioni, l’esercito è pronto per una guerra in Libano".
Per Netanyahu, al momento, la situazione interna è tutt’altro che lusinghiera. Nei lunghi anni di governo ha elaborato una gestione del potere talmente sofisticata che se gli fossero imposte elezioni anticipate (come ha già chiesto il partito di Benny Gantz) potrebbe ragionevolmente sperare di uscirne vincente anche in condizioni in apparenza disperate. Un sondaggio dell’Istituto israeliano della democrazia (Idi) ha rivelato un diffuso malessere nell’opinione pubblica. Il 66-68% è pessimista circa la salute della democrazia israeliana e la sicurezza interna. L’80% dubita che il governo abbia un piano per la futura gestione di Gaza. La maggioranza relativa degli israeliani dà un voto totalmente negativo al governo per la gestione della guerra a Gaza e al confine col Libano, e per l’incapacità di assistere decine di migliaia di israeliani sfollati ad ottobre dalle loro case.
L’associazione stampa ha denunciato che Netanyahu, dall’inizio della guerra, ha rilasciato 26 interviste in inglese ad emittenti straniere e nessuna a mezzi di comunicazione israeliani: "Ha colpito la libertà di stampa". Altre lagnanze riguardano il comportamento della polizia controllata dal ministro della sicurezza interna Itamar Ben Gvir, reputata piuttosto ruvida di fronte alle manifestazioni di protesta. Malgrado la difficoltà Netanyahu e il Likud stanno gradualmente recuperando il terreno perduto. Il suo rivale centrista Gantz lo precede ancora, ma è in fase calante. In caso di elezioni anticipate la coalizione delle destre otterrebbe 51 dei 120 seggi alla Knesset, mentre oggi ne ha 64. Ma le forze d’opposizione sono frammentate in una decina di liste litigiose. Emergono l’ex ministro della difesa Avigdor Lieberman, radicale laico di destra, e l’ex generale Yair Golan, che cerca di coagulare attorno a sé laburisti, sinistra sionista e i movimenti di protesta anti-Bibi. Ieri Netanyahu ha conseguito un importante successo quando due partiti ortodossi (Shas e Unione della Torah) hanno assecondato il suo progetto per una intesa sulla tregua. Ma sono contrari al reclutamento obbligatorio, anche parziale, degli studenti dei collegi rabbinici. Per Netanyahu, secondo il direttore di Haaretz Aluf Ben, una via di uscita potrebbe essere lo scioglimento della legislatura con elezioni anticipate. Il suo diventerebbe un governo di transizione in cui i suoi partner resterebbero intrappolati.