Lunedì 29 Aprile 2024

Europa, Berlino occupa tutti i posti chiave. E Roma si mette fuori gioco da sola

L'ultimo autogol di Renzi: benservito all'ambasciatore in pieno vertice Ue

Jean Claude Juncker e il premier Matteo Renzi al Consiglio europeo (ImagoE)

Jean Claude Juncker e il premier Matteo Renzi al Consiglio europeo (ImagoE)

Roma, 6 gennaio 2016 - LE PAROLE solenni pronunciate da Helmut Kohl nei giorni della riunificazione – «Non voglio un’Europa tedesca ma una Germania europea» – sono roba da storici. Oggi l’Europa è praticamente tedesca, per impostazione politica, per strategia economica, perfino per cultura. Una prevalenza che ha la rappresentazione plastica nella nomenklatura dell’Ue, nell’occupazione sistematica dei posti chiave, nelle nomine cruciali riservate a burocrati di lingua tedesca o assimilabili. E tutti legati alla cancelliera Angela Merkel, incontrastata leader a prescindere da chi guida Commissioni o abbia la presidenza di turno.

Periodicamente spunta un tedesco che tira le fila in dicasteri cruciali. Dopo il segretario generale del Consiglio europeo Uwe Corsepius, o il direttore del fondo salva Stati (Esm), Klaus Regling, il commissario per l’economia e la società digitali Gunter Oettinger o il presidente del Parlamento Martin Schulz (socialdemocratico), ora la copertina da uomo forte dell’Unione spetta a Martin Selmayr, capogabinetto ed eminenza grigia del presidente della Commissione, Juncker. Ma sono i numeri che fotografano la dominazione tedesca nell’euroburocrazia: quattro direttori generali, sei vicedirettori generali, 29 direttori, più quattro capi di gabinetto, cinque vice e un funzionario in ogni settore. Ed è l’organigramma prima della nuova tornata di nomine. «Non sono anti-italiani – confessa chi ha raccontato l’ascesa di Selmayr –, solo pro tedeschi. Sono tutti molto attenti agli interessi della Germania, che coincidono con quelli della Merkel e, qualche volta, con quelli dell’Europa. Seguono con attenzione tutti i dossier, la preparazione dei Consigli e dei documenti della Commissione. E quando c’è da scegliere un direttore o un dirigente chiave, sfruttano la loro rete di relazioni». Come replica l’Italia a questa strategia di occupazione degli spazi? Numericamente ha le poltrone che le spettano. «Il 10,6% dei funzionari della Commissione – elenca Andreana Stankova, dello staff comunicazione – è italiano. Il 55% dei funzionari contribuisce a elaborare le politiche europee. Ci sono 118 italiani manager di livello medio e 30 direttori o equivalenti, il 10,8% dei Senior manager». Lista impeccabile, ma nell’Unione i posti chiave si pesano. «Non solo mancano gli italiani – fa notare un corrispondente da Bruxelles – ma anche quando ci sono, ragionano con logiche europee. Marco Buti, l’uomo che studia i dossier Ecfin e valuta le leggi di stabilità, è italiano, ma ha fatto carriera da solo. Spesso remiamo anche contro noi stessi».

COME GIUDICARE altrimenti la mossa ‘tafazziana’ del premier Renzi che, nel bel mezzo del Consiglio europeo, ha ‘licenziato’ a mezzo stampa l’ambasciatore Ue, Stefano Sannino, reo di non aver difeso l’Italia sui migranti e sulle clausole di bilancio? La colpa di Sannino, che aspirava a diventare segretario generale Ue, sarebbe quella di essere stato nominato da Enrico Letta. Al suo posto arriverà da Mosca l’ambasciatore Cesare Maria Ragaglini. Sandro Gozi, sottosegretario agli Affari europei, non nega l’assenza di «gioco di squadra nazionale». «L’Europa è una priorità per il governo – assicura Gozi –, anche se lo sport più praticato a Bruxelles, soprattutto da italiani, è sparare contro l’Italia. Non abbiamo mai avuto tanti italiani negli staff della Commissione, sono 24, con due capigabinetto. Prima avevamo 4 direttori generali, poi siamo scesi a 2. Con la nomina di Roberto Viola alla direzione dell’Unione digitale, siamo tornati a 3. Ma vogliamo fare di più».