Domenica 19 Maggio 2024

Palmira, guerra dell’Isis a un mito. "Caschi blu a difesa delle rovine"

Minacciata la millenaria città romana. La Siria manda rinforzi di Franco Cardini

Un beduino davanti alle rovine romane di Palmira (Ansa)

Un beduino davanti alle rovine romane di Palmira (Ansa)

PALMIRA . L’esercito siriano ha inviato rinforzi verso l’antica città di Palmira per tentare di respingere i jihadisti dello Stato islamico che si trovano alle porte del celebre sito archeologico patrimonio dell’Unesco, e hanno minacciato di distruggerne i tesori archeologici. «I jihadisti si trovano ormai a un meno di un chilometro da Palmira», ha affermato Rami Abdel Rahmane, direttore dell’Osservatorio siriano per i diritti umani. «Il regime ha inviato rinforzi verso la città e l’aviazione bombarda i dintorni di Tadmor», nome della città in arabo. Negli scontri che si svolgono a nord, a est e a sud della città sono morte già 138 persone, di cui 73 soldati e 65 jihadisti.

TADMOR, ‘la città dei datteri’. Dattero si dice in ebraico Tamar, in arabo Tamra. Una città carovaniera al centro di un immenso, ubertoso, favoloso oasi di palme. I romani, difatti, la chiamarono Palmyra. Sorgeva ungo la via carovaniera che dall’Eufrate andava verso il Mediterraneo, all’incrocio con l’altra, che dall’Anatolia e da Damasco giungeva all’Arabia felix, lo Yemen attuale, e che per i romani era la ‘Via delle Spezie’: ai porti arabo-meridionali approdavano difatti gli aromi preziosi che provenivano dall’India, insieme con l’oro, l’avorio e l’incenso dell’Africa. Palmira collegava l’impero romano al leggendario regno della regina di Saba.

A LUNGO contesa con l’impero persiano e quindi parto, la fiorente città finì stabilmente nell’area di quello romano tra I e II secolo dopo Cristo. I palmireni, popolo di stirpe arabica, si ellenizzarono rapidamente. Il principe Odenato e sua moglie, l’affascinante e intraprendente Zenobia, seppero creare nella seconda metà del III secolo un vero e proprio impero: e il loro figlio Vaballato, che dominava un’area molto estesa a cavallo tra la Siria, Israele e Iraq attuali, si proclamò addirittura Cesare Augusto. Dovette muoversi da Roma l’imperatore Aureliano per sconfiggerlo nel 272: Zenobia fece parte del bottino ostentato durante il trionfo di Aureliano.

QUEI principi astuti, raffinati e crudeli erano riusciti a trasformare la loro città in una delle meraviglie del Vicino Oriente. Ancora oggi le imponenti memorie di Palmira costituiscono – insieme con le altre splendide città carovaniere, da Baalbek in Libano a Jerash e Petra in Giordania – un autentico tesoro dell’umanità, un’eredità d’ineguagliabile splendore e di straordinaria importanza sotto il profilo archeologico e artistico. Una tipica grande città carovaniera ellenistica, i monumenti della quale sono anche un capitolo importante dell’architettura e dell’estetica antica: l’arte palmirena, appunto.

Palmira è formalmente riconosciuta dall’Unesco patrimonio artistico e culturale dell’umanità: ma non è questo il punto. Molte altre città, molti altri siti archeologici lo sono. Il fatto è che siamo davanti a un’autentica gloria del mondo, come ben sa chi l’ha visitata o chi la conosce attraverso i libri e i numerosi documentari che ne hanno ritratto le bellezze.

OGGI il malanno avviato nel 2011 con l’insensato e criminale tentativo di sovvertire lo stato siriano sta giungendo a uno di quelli che potrebbero essere i suoi più tragici epiloghi. Chi, con l’alibi del rovesciamento della dittatura di Bashar Assad, avviò quattro anni fa una catena di disastri che misero la Siria nelle mani dei gruppi jihadisti, può essere oggi soddisfatto: la città di Aleppo, uno dei più bei centri storici del mondo, è andata distrutta; altre meraviglie, dai siti carovanieri ai castelli crociati della zona, sono minacciate; e non c’è da farsi illusioni, dal momento che non si tratta di effetti di una barbarie spontanea, che potrebbe moderarsi da sola spinta dal timore di provocare lo sdegno del mondo.

No. Qui siamo di fronte a una barbarie progettata e programmata da gente che sa perfettamente quello che fa. A dirla con Shakespeare, c’è del metodo in questa follia.

QUELLI dell’Isis distruggono i monumenti artistici esattamente nella stessa maniera e con le stesse implacabili intenzioni con cui tagliano le teste. Vogliono provocare l’Occidente e spingerlo a reagire ciecamente; vogliono presentarsi ai poveri sciagurati che nell’Islam vengono affascinati dal loro verbo sanguinario che essi, ed essi soli, sono depositari del ‘puro Islam’ e che per questo l’Occidente ‘crociato’ li odia e si appresta a martirizzarli. Bisogna reagire: e subito. Ma senza cadere nella loro trappola. Sono i Caschi blu dell’Onu che debbono intervenire: con in prima linea i paesi musulmani sunniti, perché questa non è una guerra di religione e non dobbiamo fare ai terroristi il regalo di presentarla propagandisticamente come tale. Dobbiamo spezzare quest’incantesimo malefico in forza del quale, fino ad oggi, contro l’Isis hanno combattuto sul serio solo le milizie curde, qualche reparto di sciiti inquadrati nell’esercito irakeno e pochi volontari iraniani. Sono i paesi sunniti vicini e alleati dell’Occidente che debbono muoversi per sradicare dal cuore dell’Islam sunnita questa peste. Sono i turchi, gli arabo-sauditi, gli emirati, gli egiziani, i giordani: e naturalmente anche noi, ma in appoggio a loro.

BISOGNA reagire. Ma so bene che non accadrà, come non è accaduto finora. Ne è prova il fatto che poche settimane fa Arabia saudita ed Egitto, paesi musulmani arabi sunniti e nostri alleati, si sono mossi concordi per far la guerra… ai musulmani sciiti dello Yemen, avversari inconciliabili di al-Qaeda e nemici dell’Isis. La fitna antisciita continua, il suo vero obiettivo è l’Iran, non il Califfo. Per questo rischiamo di perdere Palmira. E allora, insieme all’azione militare per fermare i fanatici, un altro obiettivo s’impone: fondamentale per noi. Smascherare chi davvero difende l’Isis, chi l’arma, la finanzia a le protegge. L’Isis, nemico pubblico Numero Uno, alla quale il mondo guarda atterrito e immobile, mentre contro di essa versano il loro sangue, anche per noi, solo le soldatesse curde e gli irakeni che avevamo ‘liberati’ da Saddam Hussein.

di Franco Cardini