Lunedì 29 Aprile 2024

Berlino, Orso d'oro miglior film a Taxi dell'iraniano Panahi

Il regista bandito dal suo Paese si è messo personalmente alla guida del mezzo per le strade di Teheran

Berlino, Orso d'oro a Taxi dell'iraniano Panahi (Afp)

Berlino, Orso d'oro a Taxi dell'iraniano Panahi (Afp)

Roma, 14 febbraio 2015 - E' il Taxi guidato da Jafar Panahi l'Orso d'oro di questo 65esimo Festival internazionale del cinema di Berlino, che oggi ha assegnato i premi durante la cerimonia di chiusura delle 19. Domani sarà il turno dei berlinesi, che potranno finalmente assaporare tutti i film del concorso e della sezione Panorama, la più amata dal pubblico. Il regista iraniano bandito dal suo Paese, nel quale è stato condannato a 6 anni di reclusione e al divieto per 20 anni di viaggiare, produrre film e rilasciare interviste dentro e fuori l'Iran, si è messo personalmente alla guida del mezzo per le strade di Teheran, perché come dice egli stesso a un cliente "un mestiere vale l'altro". L'ironia, la presa di coscienza ogni giorno di più del dramma che sta vivendo, e quindi la necessità che diventa virtù di crearsi una identità di iraniano normale, lavoratore, calati in un'opera coraggiosa con i contorni di una commedia, sono gli ingredienti che hanno convinto i giurati. 

E Darren Aronofsky, alla guida della giuria internazionale che comprende Audrey Tautou, Martha De Laurentiis e Claudia Llosa, deve essersi immedesimato per un po', o almeno provato, nella vita di un collega segnato da una condanna iniqua, per un uomo e per un artista. Sì, questo è un premio al coraggio. Al di là del merito artistico del film. Al quale è giusto ammetterlo si affiancavano altre opere non meno meritevoli. Riconosciute nel verdetto. Nulla da fare per l'italiana Vergine giurata, nonostante le lodi ad Alba Rohrwacher e al suo dialetto albanese perfetto. 

È stato un Orso d'oro incerto fino alla fine perché a questo giro la Berlinale non ha regalato il capolavoro o quel film nettamente superiore da provocare la sindrome di Stendhal, ma una serie di buoni film, sui quali sono stati concordi un po' tutti. È stata una manifestazione anomala, anche climaticamente. Una spruzzata di neve, poi il gelo tipico della città d'inverno fino a una temperatura talvolta mite. Mentre l'Italia era piegata in due dalla neve. Un aumento della temperatura che nella capitale tedesca si è tradotto nei premi ai vincitori. Orso d'argento, dietro Panahi, che significa gran premio della giuria è andato a El Club del cileno Pablo Larrain. Uno nelle corde di Aronofsky. Dell'autore americano ricordiamo The Wrestler e Requiem for a Dream. Del cileno la trilogia sul suo Paese martoriato dalla dittatura e il vulcanico Tony Manero. Naturale che il primo capisca le scelte del secondo, in senso stilistico e artistico. 

Il club è speciale, una casa di recupero per ex preti pedofili e criminali negli anni di Pinochet. Un tentativo di redenzione irto di ostacoli grossi come le onde dell'oceano che gli ospiti trovano ogni mattina, abbattersi sulla spiaggia. L'animo umano può perdersi per sempre e non c'è legge dello stato o religione che possano cambiare il corso del destino.  Il gusto di Berlino dov'è andato ancora? Mentre i rumors di bookmakers e critici si scatenavano su questo o quel titolo, noi applaudiamo la scelta di premiare Charlotte Rampling e Tom Courtenay con gli orsi d'argento alle migliori interpretazioni per "45 Years". I preparativi per il party dell'anniversario rovinati da un fantasma, ormai ridotto a cadavere nelle Alpi svizzere, di una donna che il maturo sposo ha amato in gioventù. Con un vero finale, proprio al fotofinish.

Più che discreta la qualità media dei film della selezione ufficiale, in cui sono giustamente spiccati "Ixcanul" del guatemalteco Jayro Bustamante, a cui è andato il riconoscimento per le nuove prospettive che apre nel cinema, e "Aferim" ex aequo con "Body", migliori regie. Tre storie originali, diverse, che spalancano una finestra su scenari nuovi, praticabili in un'arte che continuamente si rinnova e cambia registro.  Un vulcano che detta legge con la propria forza mistica, il western gitano girato in Romania in bianco e nero e un dramma famigliare, in cui padre e figlia superano un grave lutto cercandosi a distanza, senza volerlo. Con questo film abbiamo scoperto lo humor polacco. 

A prescindere dagli Orsi, la Berlinale è stata teatro di fenomeni di costume e isterie collettive come poche. Folla di ragazzini dal primo pomeriggio, per il red carpet dei giovani divi di "50 sfumature di grigio" Dakota Johnson e Jamie Dornan. Lei, notiamo, oltre alla scollatura vertiginosa ha messo in mostra un certo sguardo diabolicamente allusivo molto più in parte, rispetto a quanto offerto sul set. Pubblico incontenibile alla Premiere di "Life" del regista fotografo olandese Anton Corbijn, che ha fatto sfilare l'ex Twilight Robert Pattinson. Per lui il ruolo di Dennis Stock. L'ultimo a ritrarre James Dean nel 1955, prima della morte del giovane diventato leggenda. Nei panni inquieti di Dean, colui che viene additato come sua reincarnazione cinematografica, Dane DeHaan. Ma siamo lontanissimi, ci permettiamo di osservare. 

Una bella manciata di Gala si è vista a Berlino. In uno di questi, la regina Helen Mirren che ha calamitato flash e attenzioni con "Woman in Gold" e la serata in onore di "Selma", biopic su Martin Luther King candidato all'Oscar per il miglior film. Se c'è un padrino di questo festival, di certo è Wim Wenders, cineasta di culto al quale è stato tributato un Homage e il Golden bear onorario. È giunto con un'opera nuova, "Everything Will Be Fine", dramma dalle tinte polanskiane e hitchcockiane con l'onnipresente James Franco. È stato questo il festival, in 11 giorni di proiezioni: una efficace alternanza di mondanità, divismo e visioni d'essai. Che ha permesso di mettere uno accanto all'altro cinematografie dal Vietnam o dal Giappone con l'Eisenstein messicano di Peter Greenaway - il più generoso all'incontro con la stampa - e con il ritorno di Werner Herzog in "Queen of the Desert", illuminato da Nicole Kidman.

Ma questa edizione sarà ricordata anche per l'ennesimo, misterioso film di Terrence Malick, assente storico dei festival, che manda le sue star Natalie Portman e Christian Bale a rappresentarlo, e per l'ultima magia Disney, la Cinderella di Kenneth Branagh, che ha messo insieme un cast da favola appunto. Il tavolo più brillante di stelle di tutte le conferenze stampa. Helena Bonham Carter, Stellan Skarsgård, Richard Madden, Derek Jacobi e le due eroine, nel bene e nel male, Lily James e Cate Blanchett. Assente il maestro italiano Ermanno Olmi, del quale abbiamo visto "Torneranno i prati", ambientato nelle trincee coperte di neve della grande guerra. Un esempio di cinema assoluto, nella sottrazione. Di luce, di immagini, di fragore, di effettacci. Perché non c'è bisogno di mostrare ogni dettaglio degli interrogatori della Gestapo, come invece ha fatto un suo collega tedesco in "Elser. 13 Minutes", per far riflettere il pubblico.