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Perché i chili in più fanno male al cuore

La combinazione tra obesità e scompenso cardiaco può ridurre l’aspettativa di vita: fino a sei anni in meno rispetto ai normopeso

22/01/2024 - di Olga Mugnaini

Il detto “Fat but fit”, cioè “grasso ma in salute”, è un mito da sfatare. L’obesità è comunque un fardello che concorre a provocare numerose patologie, anche gravi, prime fra tutte a danno del cuore. I chili di troppo sono spesso il primo passo sulla strada che porta allo scompenso e si stima che fino all’80% dei pazienti con scompenso cardiaco e frazione di eiezione preservata (significa che il cuore si contrae normalmente, ma che tuttavia, i ventricoli si irrigidiscano e non sono quindi in grado di riempirsi correttamente), sia anche obeso.

 

La combinazione è molto pericolosa, perché può aumentare fino all’85% il rischio di eventi cardiovascolari fatali, ‘rubando’ almeno 6 anni di aspettativa di vita. Lo hanno ricordato gli esperti in occasione dell’84° Congresso Nazionale della Società Italiana di Cardiologia (Sic), che si è svolto a Roma, sottolineando che l’aspettativa di vita e quella di salute dei pazienti obesi sono più basse rispetto a chi è normopeso.

 

Il paradosso è nato perché l’indice di massa corporea non è l’indicatore più adeguato della reale obesità che si misura meglio con un metro: il girovita deve essere meno di 88 centimetri nelle donne e 102 centimetri negli uomini, ma soprattutto deve misurare meno di metà dell’altezza, per la salute del cuore e non solo. Il 2023 è stato però l’anno della svolta per le terapie: è ora possibile trattare i pazienti con scompenso cardiaco con un farmaco specifico anti-obesità, semaglutide, ottenendo un miglioramento dei sintomi e della funzionalità oltre che una riduzione significativa del peso corporeo.

 

«Scompenso cardiaco e obesità sono due epidemie in rapidissima crescita – afferma Pasquale Perrone Filardi, presidente Sic e direttore scuola di specializzazione per l’apparato cardiovascolare della Federico II di Napoli –. L’insufficienza cardiaca oggi colpisce oltre un milione di italiani e si stima un incremento del 30% dei casi entro il 2030. L’aumento dei casi è trainato in parte dall’incremento dell’aspettativa di vita, perché la prevalenza della patologia raddoppia a ogni decade di età e dopo gli 80 anni lo scompenso colpisce il 20% della popolazione. Tuttavia l’insufficienza cardiaca ha anche l’obesità fra le sue cause principali perché i chili in eccesso comportano, fra le altre cose, un incremento dell’infiammazione generale, un maggiore stress su metabolismo e sistema cardiovascolare e un aumento del grasso viscerale anche a livello cardiaco».

 

Ed è proprio il grasso viscerale e addominale il più pericoloso e quello che dovrebbe essere realmente misurato: «La semplice valutazione dell’indice di massa corporea e quindi del rapporto fra peso e altezza non basta – aggiunge Ciro Indolfi, past-president della Sic e ordinario di cardiologia all’Università degli Studi “Magna Grecia” di Catanzaro –. È necessario valutare la distribuzione del grasso e non soltanto l’indice di massa corporea così ogni possibile vantaggio di sopravvivenza per gli obesi sparisce.

 

L’obesità infatti fa male al cuore: la probabilità di avere un infarto, un ictus o un evento cardiovascolare fatale aumenta dal 67 all’85% rispetto a chi è normopeso, tanto che i chili in eccesso ‘rubano’ fino a 6 anni di vita, secondo un recente studio pubblicato su Jama». Il grasso corporeo in eccesso comporta ipertensione, sindrome metabolica, diabete, fibrillazione atriale, tutte patologie che si associano poi all’insufficienza cardiaca. «La buona notizia è che il 2023 è stato un anno di svolta perché l’obesità è diventata per la prima volta un target farmacologico per combattere lo scompenso cardiaco – prosegue sottolinea Perrone Filardi –. Oggi, finalmente si può intervenire con una terapia mirata all’obesità. Nello studio SelecT pubblicato di recente sul New England Journal of Medicine, condotto su oltre 17.000 pazienti in sovrappeso od obesi con malattia cardiovascolare ischemica, ma non diabetici, dimostra che il trattamento con semaglutide sottocute una volta alla settimana riduce del 20% il rischio di mortalità cardiovascolare, infarto e ictus rispetto ai pazienti in trattamento con placebo».