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Dolce o salato? Dipende dal tuo Dna

Individuati circa 500 geni che regolano il gusto. La scoperta può cambiare la prevenzione di alcune patologie

21/08/2023 - di Alessandro Malpelo

Ti piace più il dolce o il salato? Preferisci i sapori delicati o le note piccanti? In un mondo globalizzato, dove sushi e poke rubano la scena a un buon piatto di tagliatelle, sembra che le abitudini alimentari, tradizionalmente influenzate da fattori etnici culturali e dalle mode del momento, gira e rigira siano comunque ereditate dai nostri genitori. Ora, uno studio condotto dall’Università del Colorado tenta di fare un passo avanti nella comprensione di quei processi che fanno venire l’acquolina in bocca. I ricercatori americani hanno individuato e catalogato 500 sequenze del codice della vita, mezzo migliaio di geni coinvolti più o meno direttamente nelle nostre scelte alimentari. Quando scorriamo un menù al ristorante e siamo indecisi su cosa ordinare in realtà stiamo passando in rassegna mentalmente migliaia di informazioni su profumo, digeribilità, masticazione, senso di appagamento. La scienza, avanti di questo passo, potrebbe aprire la strada a diete personalizzate, basate sull’analisi del nostro Dna.

 

«Abbiamo identificato geni correlati a percorsi sensoriali per gusto, olfatto e consistenza dei cibi – ha spiegato Joanne Cole, leader del gruppo di ricerca statunitense – e tutti questi caratteri considerati nell’insieme potrebbero spiegare cosa scatta nel nostro cervello durante i pasti, e quando arriva il senso di appagamento». Le caratteristiche ovviamente variano da individuo a individuo. Lo studio, si legge nel report, ha identificato circa 300 geni associati direttamente alla scelta degli alimenti, mentre altri 200 geni sono collegati a comportamenti dietetici e alle abitudini. La mappa cromosomica dei gusti potrebbe aiutare a comprendere perché una certa persona ama il pesce, e un’altra la carne alla brace. Perché c’è chi detesta la verdura e chi invece è goloso di insalata, anche senza essere per forza vegetariano.

 

Tra le centinaia di caratteri studiati si è messo a fuoco, ad esempio, un gene olfattivo che aumenta l’affinità individuale per la frutta. Modulare l’attività di un recettore potrebbe orientare verso il consumo di prodotti ideali, convincendo anche tutte quelle persone che normalmente sono poco propense a consumare frutta, e preferiscono le merendine confezionate a colazione. Dunque, la scoperta di geni associati al consumo di alimenti specifici potrebbe aprire la strada a un modo diverso di fare prevenzione nel diabete, nell’ipertensione, nel sovrappeso, o nel controllo della fame compulsiva. Esiste poi un problema di quantità, che conduce all’obesità. Nelle fasi cruciali della nostra esistenza (adolescenza, menopausa, allattamento, disoccupazione e via dicendo) si cambia. Può emergere un desiderio insaziabile di consumare.

 

Nei palati più raffinati la filosofia inversa si potrebbe riassumere nello slogan «poco, ma buono». Si tratta di persone generalmente con un fisico magro, asciutto, in grado di soddisfare il loro appetito con quantità minori di cibo, ma esigono sapori e armonie più sofisticate. Preferenze e variabilità individuali sono causate, è noto, dalle sensazioni piacevoli che riceviamo sulle papille gustative. La gratificazione spinge a mangiare più del necessario, ma anche l’inganno a volte funziona: le bollicine dell’acqua minerale a contatto con la lingua risultano dissetanti.

 

Le spezie riescono a mimare l’azione rinforzante del sale senza alzare la pressione. «Ogni scoperta si traduce in opportunità, il fine ultimo dovrebbe essere quello di elaborare diete cucite su misura, appaganti, senza gravare sulla conta delle calorie», ha dichiarato la dottoressa Cole. Oltre a migliorare la linea, ha aggiunto la genetista dell’Università del Colorado, la comprensione dei meccanismi del gusto aiuta a fare prevenzione. Regolando meglio i livelli di glicemia, e colesterolo, di fatto abbassiamo il rischio diabete e preserviamo le arterie suscettibili di sviluppare aterosclerosi, con conseguenti cardiopatie.

 

 

Le intolleranze tra fake news e test inaffidabili

 

Sembra che sempre più italiani siano alle prese con le intolleranze alimentari. Siamo di fronte a una sorta di ‘epidemia’ oppure dietro questo aumento possono nascondersi altri fattori e anche fake news? «Va detto forte e chiaro che certamente le intolleranze non sono responsabili di sovrappeso e obesità e che tali condizioni sono, invece, da considerarsi tendenzialmente patologiche, ad eziologia multifattoriale – spiega il dottor Mauro Minelli, specialista in Immunologia clinica e Allergologia -. E, d’altro canto, le ‘vere’ intolleranze alimentari sono decisamente contenute in termini di numeri e di frequenza».

 

Se stime roboanti parlano di un italiano su cinque intollerante o allergico a qualche cibo i dati reali sono molto più limitati: «Solo nel 4,5% della popolazione adulta, cioè una persona su 500, c’è una storia clinica di vere e proprie reazioni avverse ad alimenti» precisa Minelli. La conclusione è ovvia: le intolleranze vere vanno documentate con test diagnostici validati e non pseudo analisi che il ministero della Salute ha già ufficialmente definito ‘prive di fondamento scientifico’ e, dunque, inaffidabili.