Venerdì 26 Aprile 2024

L’analisi: "Calare dall’alto questi progetti non funziona"

Venturi (IAI): gli africani andavano coinvolti di più "Ma rispetto al passato c’è un salto in avanti".

"L’investimento politico da parte del governo, c’è. E nell’organizzazione, visto il livello della partecipazione di capi di Stato e di governo, anche se non da parte di tutti i Paesi, c’è stato un indubbio salto rispetto al passato. Un salto che riflette le ambizioni. Ma adesso viene il difficile: il progetto va messo a terra e fatto crescere". Così Bernardo Venturi, Responsabile Ricerca e Co-Fondatore dell’Agenzia per il Peacebuilding (AP), docente dell’università di Bologna e Associate Fellow all’Istituto Affari Internazionali.

Quali sono i limiti del piano Mattei?

"Ne individuo tre. Il primo è che per adesso non c’è stato un coinvolgimento degli africani, non c’è stato uno scambio sostanziale con loro. L’approccio vede ancora l’Africa come soggetto passivo della nostra azione, il che è un po’ limitante. Una visione un po’ antiquata. Questo è il primo grosso problema strutturale e bisognerà capire come risolverlo nello sviluppo del progetto. Bisogna fare cose con l’Africa e non solo in Africa, e non parlare solo di problemi africani come li vediamo dal Vecchio continente: bisogna lavorare assieme nello scenario globale".

Secondo limite?

"Come è stato gestito il processo a livello italiano. È stato tutto accentrato dalla Presidenza del Consiglio, creando qualche imbarazzo, di corridoio e non certo pubblico, alla Farnesina, che ha avuto un ruolo molto secondario. E questo vale a maggior ragione anche per il coinvolgimento delle organizzazioni non governative. della diaspora africana e dei think tank che lavorano su questi temi. Si poteva fare di più con un approccio partecipato, che avrebbe assicurato una maggiore continuità all’azione. E serve un coinvolgimento non occasionale, ma continuo, operativo".

E il terzo problema?

"I temi sono reali, tipici della cooperazione internazionale, ma i progetti presentati sono stati calati dall’alto".

Si parla di una dotazione iniziale di oltre 5 miliardi e mezzo di euro. Bastano come inizio?

"Intanto bisognerebbe capire quanti sono denari freschi e quanti progetti rietichettati e già finanziati. E quanti di questi 5,5 miliardi sono in realtà prestiti. Se si prendono risorse dai fondi della cooperazione e dal fondo per il clima, si prendono risorse che sono già allocate su temi analoghi se non coincidenti. Il segnale importate sarebbe stato dire: queste sono risorse aggiuntive. In larga parte mi pare di vedere un cambio di nome di quello che c’era già".

Di che cosa avrebbe davvero bisogno l’Africa?

"Di essere parte attiva del proprio sviluppo. Va trattata da partner alla pari. Serve una visione più lungimirante e condivisa. Quindi il primo passaggio da fare è ragionare sul metodo. E poi credo che, considerato anche che è in atto una grande urbanizzazione, sarebbe opportuno puntare non solo sull’agricoltura ma anche sull’industrializzazione, su investimenti comuni in distretti industriali, joint venture e partnership tra aziende europee e africane. Servono prestiti agli imprenditori e serve un grande coinvolgimento dei giovani africani, con formazione scolastica e professionale adeguata. E, ovviamente, tutto questo deve inserirsi nei progetti europei, penso in particolare al piano Global Gateway, che hanno scala ben maggiore. È fondamentale lavorare non da soli, ma assieme all’Europa".