Venerdì 17 Maggio 2024
ANDREA MARTINI
Magazine

Ripley, il talento noir di un eroe ambiguo

Creato da Patricia Highsmith nel 1955, portato al cinema da Wenders e Minghella, il personaggio torna in una serie tv. E si conferma senza tempo

Ripley, il talento noir di un eroe ambiguo

Ripley, il talento noir di un eroe ambiguo

All’inizio fu il nome: “Mr.Ripley” imposto al bellimbusto newyorkese, perdigiorno e truffaldino, pronto a saltare sull’imperdibile proposta di riportare a casa un giovane miliardario perso negli ozi della costa amalfitana. In quel felice appellativo, Ripley, echeggiano il gioco e il rischio, e risuona già l’ambiguità di un personaggio destinato a essere tra i più riusciti della letteratura thriller. Del resto, cosa altro aspettarsi da chi, ancor prima di mettere mano alla penna, aveva trasformato la propria anagrafe, Mary Plangman, in Patricia Highsmith? Il talento di M.Ripley (1955) era destinato al successo: il triangolo formato dall’astuto Tom Ripley, dall’ingenuo miliardario Dickie e dalla scaltra fidanzata Marge era stato congegnato dalla scrittrice americana all’insegna del desiderio, della falsità e della gelosia, ingredienti quanto mai amalgamabili al calore del sole mediterraneo. La forza del romanzo risedeva nella coloritura dei caratteri ben delineati ma mai portati al loro climax. In pratica richiamavano fin da allora lo schermo. Era già accaduto con Sconosciuti in treno per mano di Hitchcock (Strangers on the train) e sarebbe avvenuto più volte a marcare la modernità della sua letteratura. In pratica con ognuno dei suoi romanzi, compreso lo scabroso Carol scritto con lo pseudonimo di Claire Morgan e trasposto solo dieci anni fa da Todd Haynes.

Oggi, dopo le cinque pellicole inspirate a Ripley, arriva l’immancabile serie tv in otto puntate proposta da Netflix. Una serie interamente tratta da un solo romanzo o da un precedente film? Già successo ma non è questo il caso di Ripley, diretto da Steven Zaillian (conosciuto soprattutto per essere cosceneggiatore di The Irishman, de La lista di Schindler e di Gangs of New York) che – pur focalizzandosi anch’esso sul Talento – arriva a sfruttare in alcuni dettagli l’intero ciclo di cinque romanzi dedicati da Highsmith al personaggio. L’autrice infatti, come si sa, spinta dal travolgente esito prolungò fino all’eccesso, con disuguale riuscita, una trama fatta di tradimenti, frodi e assassinii che aveva comunque alla base la duttilità di un intreccio senza tempo.

La prima puntata inizia con un cadavere trascinato per le scale di un palazzo romano per poi scorrere nel tempo all’inverso e tornare a molti mesi prima in un cisposo appartamento di New York dove Ripley sfrutta per vivere la sua capacità d’ingannare il prossimo. Anni Sessanta, bianco e nero garanzia di glamour, buon budget, moltissimi set nel nostro Paese, e le canzoni di Mina, Fred Buscaglione e Tony Renis in sottofondo. Su tutti, il “maturo“ Andrew Scott, 47 anni, appena visto in Estranei, nel ruolo principale; al suo fianco un Johnny Flynn (Dickie) quasi mai convincente e una Dakota Fanning (Marge) dalla plastica bellezza che rischiano di diluire la forza espressiva offerta dalla galleria di interpreti precedenti. Alain Delon, Maurice Ronet e Marie Laforêt (Delitto in pieno sole, 1960, diretto da Clément) seppero intelligentemente cogliere le sfumature, per non parlare del trio Matt Damon, Jude Law, Gwyneth Paltrow che ne Il talento di Mr. Ripley (alla regia Anthony Minghella, 1999) offrirono modernità ai sottintesi (ma nel testo letterario l’omosessualità del protagonista è più che adombrata).

Persino le tre versioni più spurie, quelle di Wim Wenders (L’amico americano, 1977, con Dennis Hopper, dal terzo romanzo del ciclo), di Roger Spottiswoode (Il ritorno di Mr. Ripley tratto nel 2005 dal secondo romanzo della serie, Il sepolto vivo) e di Liliana Cavani (Il gioco di Ripley, 2002, con John Malkovich, anch’esso dall’Amico americano) hanno evitato di disperdere la forza di un ingranaggio perfetto. Pare comunque che la serie tv abbia saputo fare buon uso del prezioso talento di Patricia Highsmith. Lo garantisce per altro Steven Zaillian che racconta d’essersi battuto per il bianco e nero, per evitare i colori di un’ Italia da cartolina e rafforzare il noir della vicenda.

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