Lunedì 29 Aprile 2024

I Diari 1980-1987: "Più lirico e riflessivo ma sempre beffardo: l’ultimo Zavattini"

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I Diari 1980-1987: "Più lirico e riflessivo ma sempre beffardo: l’ultimo Zavattini"

I Diari 1980-1987: "Più lirico e riflessivo ma sempre beffardo: l’ultimo Zavattini"

Scrittore, fumettista, sceneggiatore, regista, maestro del Neorealismo. Intellettuale. Ma di Cesare Zavattini (1902-89) resta anche l’eredità di una dimensione più intima, quella dei quaderni personali. Zavattini ha infatti cominciato a tenere un diario nel 1941 e ha continuato a scrivere fino al 1987, cambiando inevitabilmente assieme all’Italia in cui era immerso. Una storia lunghissima, di cui Valentina Fortichiari, nipote di Zavattini e curatrice di questo patrimonio straordinario, e finora inedito, ha cominciato a prendersi cura nel 2022 restituendolo in tre puntate: la prima va dal’41 al 58, la seconda dal ’61 al ’79, la terza, freschissima di stampa, dall’80 all’87; tutte pubblicate da La nave di Teseo. "Nei Diari 1980-1987 (261 pp. 20 euro, ndr) prevale una componente più lirica rispetto ai precedenti – spiega Fortichiari –, che erano più ricchi di fatti e aneddoti. Ma, come in Miracolo a Milano, sono intrisi d’una tenerezza che fa ridere e piangere".

Come ci si sente alla fine di un viaggio così lungo?

"Stanchi ma soddisfatti. E felici. Questo viaggio è cominciato nel’75, quando ho iniziato a curare il Diario Cinematografico di Zavattini, che uscì nel’76. Ricordo che stavo mettendo ordine nel suo archivio quando adocchiai i suoi quaderni personali. Zavattini mi diede l’ok perché ero una di famiglia. E ricordo che mentre lavoravo, mio zio stava provando La veritaaaà, il suo testamento, con Benigni. Poi le cose andarono diversamente e fu lui stesso a interpretare la parte".

Ora che lo conosce in ogni aspetto può dirci chi era Zavattini?

"Era un intellettuale a tutto tondo. Si è inventato di tutto e ha lasciato il segno nella cultura italiana. E non solo. Registi come Spielberg hanno riconosciuto la sua importanza. E pensi che García Marquez, che frequentò la scuola di cinematografia di Zavattini, disse che se non lo avesse conosciuto, non avrebbe scritto Cent’anni di solitudine. Si fece pure seppellire con il basco che gli regalò mio zio".

Zavattini è stato anche uno dei padri nobili del Neorealismo…

"Sì, anche in virtù di quella poetica dell’occhio che gli lasciò in eredità la guerra. Aver vissuto quel periodo e visto tanti bambini abbracciati alle loro madri è stato decisivo per la sua carriera letteraria e cinematografica. Il suo sguardo sull’umanità commossa e sofferente nasce da lì".

Veniamo ai Diari: quelli degli anni ’80 raccontano uno Zavattini diverso rispetto ai precedenti?

"È uno Zavattini più riflessivo e lirico, certamente, ma che mantiene intatta la sua grande ironia. Lo fa perfino quando immagina la Morte, descrivendola come un pittoresco personaggio con i baffi di cui sembra farsi beffe. Tra l’altro, mio zio è sempre stato un amante della sana provocazione: stimolava gli intellettuali a scegliere le parole giuste per formare il Sapere, che sperava diventasse patrimonio di tutti. Una volta Andreotti lo rimproverò di aver mostrato la povertà italiana in modo troppo crudo con i suoi film; lui gli rispose con la consueta ironia: “Lei ha sgarrettato il cinema italiano”. Non a caso, si travestì da pazzo ne La veritaaaà: voleva dare la sua visione del mondo a modo suo. La sua fortuna, comunque, fu nascere nella Bassa padana".

Perché?

"Perché quella è una terra particolare, caratterizzata com’è da una fantasia surreale e da una poetica malinconia che si poggia sul Po. Che è malattia e malia".

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