Nella notte brilla un lumino, poi un altro e un altro ancora: i ragazzi della banda di Lampedusa li accendono uno a uno, come piccole stelle. Lungo le pareti di arenaria del Teatro naturale della Cava, accarezzato dal mare, 368 minuscole nicchie ricordano altrettante vite che a queste coste avevano legato il loro desiderio di futuro e di libertà. Erano uomini, donne, bambini, inghiottiti dal Mediterraneo il 3 ottobre 2013. E come loro, tanti altri che hanno cercato di approdare qui con lo stesso carico di angoscia, di fatica e di speranza. È proprio a queste anime migranti che Ravenna Festival e Riccardo Muti hanno voluto dedicare il viaggio delle Vie dell’Amicizia di quest’anno, il 28° di una serie iniziata a Sarajevo nel 1997 e proseguita in tanti luoghi feriti, Beirut, Gerusalemme, Damasco: "Questo lo sento come uno dei viaggi più significativi", ha confidato il Maestro. Coloro che fuggono da luoghi di guerra e di miseria sono come l’emblema "di milioni di persone che in questo stesso momento soffrono nel mondo", ha aggiunto, e non possiamo voltarci dall’altra parte. "Porta patet sed cor magis", la porta è aperta ma il cuore di più, ha ricordato Muti: "I migranti non dobbiamo solo salvarli ma è del dopo che ci dobbiamo preoccupare. È il mondo intero che se ne deve preoccupare".
La musica non fa proclami, "e anche le mie sono parole dal valore politico ma in senso alto, non di partito – rimarca il Maestro – Sono le osservazioni di una persona che crede nella fratellanza, nell’amore e nel valore dell’arte. Mi piace pensare che la porta d’Europa sia anche una porta di cultura".
Di voci, suoni e dolori migranti si è intessuto il concerto che il Maestro, con l’amata orchestra Cherubini, ha diretto nel Teatro della Cava, aperto ufficialmente in questa occasione, "un omaggio a tutta l’isola e alla sua gente". Il suono del Sud e di terre d’oriente nei canti delle donne salentine del Coro a Coro, la preghiera palestinese per la madre, l’Infinito di Leopardi tradotto in versi siciliani e la composizione elettroacustica, evocativa del mistero del mare, che Alessandro Baldessari, con l’orchestrazione di Claudio Cavallin, ha composto per Non dirmi che hai paura, l’opera di teatro musicale ispirata alla storia di Samia Yusuf Omar, la velocista olimpica somala morta durante la traversata verso l’Europa. Poi, nel cuore del concerto, lo struggente Stabat Mater che Giovanni Sollima ha creato sui versi in siciliano arcaico di Filippo Arriva, una lauda antica e moderna che nelle voci del controtenore Nicolò Balducci e del coro della Cattedrale di Siena ci consegna il pianto toccante di una madre che perde un figlio. "Nun ti scantari, si sempri un me picciriddu", non ti spaventare, sei sempre il mio piccolino, è il canto di una Madonna che stringe al petto il suo bimbo, una ninna nanna tragica e dolente. Avrebbero potuto intonarla le mamme che hanno affrontato il Mediterraneo sulle barche che i detenuti liutai del carcere di Opera (Milano) hanno trasformato in violini, viole e violoncelli suonati dai Cherubini e dallo stesso Sollima, strumenti straordinari che conservano il colore originario delle imbarcazioni e soprattutto "contengono tanto amore", ha detto il violoncellista.
"Nel 2021 chiesi all’allora ministra Lamorgese di poter riutilizzare il legno di cento barche che sarebbero state distrutte, come corpi di reato", ha spiegato Arnoldo Mosca Mondadori, presidente della Fondazione Casa dello Spirito e delle Arti che cura il progetto: i detenuti, con la guida di liutai esperti, ne hanno ricavato questi violini del mare,. "Legno di morte si è tramutato in anima di suoni", ha sottolineato emozionato Riccardo Muti che ha ricevuto in dono due bacchette realizzate con gli stessi legni: "Le terrò come sacre". E sugli applausi finali del concerto (su Raiuno l’8 agosto, in un abbraccio con l’omologo evento di Ravenna) ha guardato verso la parete della cava: i lumini erano tutti accesi e disegnavano una costellazione, un cielo di stelle. Il cielo e il mare che sono di tutti.