Roma, 26 febbraio 2024 – Donald Trump continua la sua marcia verso la nomina del Partito repubblicano dopo aver sconfitto la rivale Nikki Haley nel suo Stato natale, la Carolina del Sud. Con il 99% delle schede scrutinate Trump ha conquistato il 59,8% dei voti. A Nikki Haley il 39,5%, ma almeno 44 dei 50 delegati in palio sono andati a Trump. Haley non ha mollato e ha detto che rimarrà in gara, dicendo che non crede che Trump possa sconfiggere il presidente Joe Biden a novembre. Decisivo sarà il ‘super martedì’ del 5 marzo con il voto di 15 Stati e l’elezione del 36% dei delegati alla convention repubblicana.
Mario Del Pero, professore di Storia della Politica estera statunitense al Centre d’Histoire dell’Istituto di Studi Politici di Parigi, Sciences Po, i giochi sono ormai fatti, sarà Trump lo sfidante di Biden?
"Non vedo come ci possa essere una strada per Haley, che ha perso in tutte le primarie, anche nello Stato in cui è stata governatrice, anche in quelle in teoria più vantaggiose perché aperte anche a indipendenti. Questo ci dice molto su cosa è diventato il partito repubblicano: si è realizzato lo scenario che Trump auspicava, e cioè che quasi tutto il voto contro di lui si convogliasse su una candidato e che questo perdesse sistematicamente. Nel 2016 i repubblicani anti Trump, se coalizzati, forse sarebbero bastati a sconfiggerlo, ora non più. L’elettorato repubblicano è oggi sostanzialmente trumpiano. Poi, Haley ha molte risorse e resterà in gara fino a che la matematica non le darà torto. Non credo che punti alla vicepresidenza, magari punta a poter dire, se Biden dovesse ancora battere Trump: avete visto? E avere una legittimità politica che chi si è accodato a Trump non avrà e così candidarsi per il futuro".
Che America è un Paese che consente di correre a un candidato accusato di aver cercato di sovvertire l’esito delle elezioni precedenti e finito sotto plurime inchieste penali?
"È una America polarizzata, nella quale il traino che porta la gente alle urne è un traino negativo: la paura e l’avversione della controparte. C’è un processo di delegittimazione reciproca che ha polarizzato l’elettorato. È una spia forte della crisi della democrazia americana. Quanto ai processi, Trump è sostenuto nonostante le accuse contro di lui perché esprime l’antipoltica, deride gli opportunismi e la debolezza della politica americana, è un personaggio senza filtri e questo piace. È un antinterventista in politica estera, molto polarizzato nella lotta all’immigrazione clandestina e tutto ciò aggrega consensi nell’America di oggi e non solo in quella conservatrice. È un Paese scottato dalle guerre fallimentari in Iraq e Afghanistan e sempre più antiglobalizzazione. Certo, se le accuse giudiziarie hanno fatto gioco a Trump alle primarie, è tutto da capire se sarà così anche alle presidenziali. I sondaggi dicono c’è una piccola ma non insignificante quota di elettori repubblicani che non lo voterebbe in caso di condanna".
Se vincesse, sarà un Trump che non farà prigionieri?
"Lo ha pure detto: non sarebbe il Trump sotto tutela del 2016. Stavolta sarebbe una amministrazione di lealisti trumpiani. Radicale. Su molti temi, come l’immigrazione, assisteremmo a misure draconiane".
Il governatore democratico della California, Gavin Newsom, ha detto in una intervista alla Nbc che "l’età di Biden è una risorsa". Concorda?
"Per nulla. Non è una risorsa ma un grossissimo problema, come ci dicono i sondaggi: anche i democratici esprimono preoccupazione. L’età è forse una delle debolezze principali di Biden, oggi, e sta già avendo effetti sulla sua capacità di comunicare. Il che in una campagna elettorale è un bell’handicap".
In ultima analisi quante chance dà a novembre a Biden e Trump?
"Direi cinquanta a cinquanta. È uno scontro di debolezze, per molti versi anche estreme, che bene non fa a una democrazia soggetta a lacerazione forti e che vive di compromessi e di mediazioni".