Lunedì 29 Aprile 2024

Lavoro, addio ufficio. Vince la 'zainocrazia'

Intervista al professore Leonardo Previ (Università Cattolica). Come cambia la professione: i luoghi fisici spariscono, sostituiti da un contenitore personale

Uno spazio di coworking

Uno spazio di coworking

"È un neologismo creato per opporlo alla burocrazia – risponde Leonardo Previ – È solo da 200 anni che l’uomo lavora in un luogo fisico concentrato, la fabbrica e gli uffici. A cosa servivano quelle strutture? A compiere azioni ripetitive da catena di montaggio. Quello schema oggi però è saltato".

Come è accaduto?

"Con la digitalizzazione le funzioni più semplici le fanno molto meglio le macchine. Inoltre il vincolo al posto di lavoro fisico non favorisce ciò che serve maggiormente all’uomo moderno, la sua creatività, anzi la limita. Io faccio spesso questo esempio. Il contabile era un lavoro sicuro. Però adesso c’è il bancomat, che è molto più bravo a contare i soldi. Però non può sapere a chi darli".

Su quali principi si basa la zainocrazia?

"Se vogliamo parlare di teoria, ricorrerei alla definizione di knowledge worker, operai della conoscenza, coniata nel ‘54 da Peter Drucker, dopo essersi accorto che la metà delle aziende quotate a Wall Street basava il proprio valore su beni immateriali".

Ma perché la burocrazia resiste al cambiamento?

"Lo schema del controllo, alla Fantozzi, è duro a morire anche se non è affatto efficace. È chiaro che si deve puntare sulla responsabilità di ognuno. E chi ha detto che il vecchio sistema sia migliore? Senza cartellino si vive meglio, e molti iniziano a capirlo".

A Milano sta esplodendo il fenomeno del co-working. Come si lega alla prospettiva zainocratica?

"Sono due fatti direttamente legati. I coworker sono studenti e ‘operai della conoscenza’, impiegati e manager che hanno l’ufficio nello zaino e spesso lavorano lì".

In concreto, come si applica la ricetta zainocratica?

"Lo schema è uno, le soluzioni moltissime: ci sono aziende che chiedono la presenza fisica in ufficio solo il lunedì e il venerdì. Altre, come BNP Paribas per la sua nuova sede milanese ha meno postazioni che impiegati. In Enel la minore rigidità consente il dialogo tra due settori che tradizionalmente non comunicano: gli addetti al marketing e quelli al prodotto. Il tentativo è di farli collaborare di più".

Che bilancio traccia di questa evoluzione dopo un quarto di secolo di esperienza?

"Abbiamo cominciato col mettere in discussione la figura del super specialista: se io faccio benissimo il the e lei benissimo il caffè nessuno dei due farà un bar. Quindi cooperare. L’evoluzione c’è stata: ora la nostra attività si svolge in due settori: le grandi aziende, come il Gruppo Generali, il già citati Enel e BNP Paribas, Prada, Bulgari Loro Piana. L’altro filone riguarda le piccole aziende, le imprese familiari. Da qualche anno ci occupiamo anche del delicatissimo tema del passaggio generazionale".

Come affrontate i due tabù, che dominano la nostra società: il posto fisso e il rischio di sfruttamento per chi non è assunto?

"Il posto fisso è un problema molto italiano. A creare maggiore ricchezza in Europa negli ultimi 30 anni sono paesi come la Danimarca, l’Olanda, la Svezia, l’Irlanda, dove gli stessi dipendenti non lo vogliono. Lì l’economia galoppa, da noi ristagna. Quindi la scelta è facile: cambiamo o ci impoveriamo".

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