Giovedì 25 Aprile 2024

Pensione 5 anni prima con lo scivolo aziendale: è il contratto di espansione

Arriva il contratto di espansione anti licenziamenti. Nel Decreto Sostegni si amplia la platea a imprese con più di 100 dipendenti

Una manifestazione dei pensionati in una foto d’archivio

Una manifestazione dei pensionati in una foto d’archivio

L’arma del governo contro una possibile valanga di licenziamenti, temuta in vista dello sblocco previsto dal primo luglio, si chiama contratto di espansione. Una modalità di "scivolo aziendale" già esistente ma finora poco usata che, come disposto dal "pacchetto lavoro" del Decreto Sostegni bis, amplia la platea delle imprese (sarà fruibile da quelle con oltre 100 dipendenti e non più 250) e permetterà di anticipare il pensionamento per quei lavoratori – si stima che quest’anno potrebbero essere 27mila – ai quali mancano fino a 5 anni per uscire dal lavoro. Ma i sindacati si mostrano critici, temendo il flop dell’operazione, e dunque una valanga di licenziamenti non controbilanciata da un’adeguata protezione, a causa degli elevati costi per l’azienda previsti dal meccanismo.

Il contratto di espansione

La formula si basa su un accordo tra azienda e dipendente stipulato a 5 anni (o meno) dal momento della pensione di vecchiaia o anticipata. Il dipendente ha quindi almeno 62 anni (vecchiaia) oppure almeno 37 anni e 10 mesi di contributi versati (anticipata). In base all’accordo, il dipendente esce dal lavoro e accede alla pensione con anticipo di massimo 5 anni.

Quanto perde il lavoratore

Secondo una simulazione dello Studio De Fusco & Partners, considerando una retribuzione annua lorda di 30mila euro (1.650 euro di retribuzione netta mensile), rispetto all’assegno pensionistico "pieno", con il prepensionamento si perdono in media 120 euro mensili (una forbice compresa tra 40 e 160 euro, a seconda che l’uscita avvenga a 1 o 5 anni dalla maturazione dei requisiti pensionistici). Per la fascia di retribuzione lorda annua di 40mila euro (2.050 mensili netti), rispetto alla pensione piena si perdono mediamente 145 euro (la forbice in questo caso è compresa tra 60 euro e 180 euro, a seconda che si esca 1 anno o 5 anni prima).

Chi esce per vecchiaia perde più del lavoratore che esce con l’anticipata, perché perde ben 5 anni di contributi (dai 62 ai 67 anni): l’azienda non glieli versa. E quindi - dopo 5 anni di indennità - quando compie i 67 anni e va in pensione ha 5 anni di contributi in meno. Chi al contrario esce con l’anticipata, si trova anche 5 anni di contributi figurativi pagati dall’azienda che non può esimersi perché altrimenti il lavoratore non matura il requisito per la pensione, non passa cioè dai 37 anni e 10 mesi ai 42 anni e 10 mesi previsti dalla legge Fornero (uno in meno per le donne).

Vantaggi e oneri dell’azienda

A fornire la provvista per versare la "pensione di transizione" è l’azienda di provenienza del lavoratore, che mensilmente deve fornire all’Inps una somma garantita da una fideiussione. Dalla cifra versata, l‘azienda risparmia, ma solo per 2 anni, quanto spetterebbe al lavoratore come Naspi in caso di perdita del posto di lavoro. Un lavoratore che guadagna 36mila euro l’anno, ne costerebbe 260mila fino alla pensione mentre in questo modo solo 100mila. Senza contare che niente vieta al lavoratore di trovare un altro posto, col contratto di rioccupazione.

Le riserve dei sindacati

Dal mondo dei sindacati non arriva semaforo verde. "Se non si modificano i criteri di accesso - ha spiegato Roberto Ghiselli, segretario confederale Cgil - si rischia il flop. Per le aziende pagare l’importo della pensione maturata per cinque anni recuperando l’importo della Naspi per due anni è troppo costoso. Ma se l’accordo è solo per due non conviene al lavoratore che preferirà andare in Naspi perché almeno avrà i contributi".

 

 

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