Prima ci fu la macchina a vapore, poi la catena di montaggio, infine il computer. Nella quarta rivoluzione industriale – digitale e green – siamo dentro fino al collo. Il momento perfetto per stare al timone di una grande macchina del sapere scientifico. Stefano Corgnati, classe 1973, da marzo è il nuovo rettore del Politecnico di Torino.
Professore, dovrebbe sentirsi carico come Robespierre…
"Mi sento carico di responsabilità. Oggi la rivoluzione digitale e quella green hanno una variabile che le differenzia: il tempo. Il digitale penetra subito la società, la transizione green, pur con urgenze legate alla sopravvivenza, ha un respiro più lungo perché passa dalle infrastrutture. Io mi prefiggo per entrambe il giusto passo senza confonderle. Fast track e cinquanta sfumature di verde".
Le università americane si stanno incendiando. E’ pronto ad affrontare un nuovo 68?
"E’ necessario avere piena consapevolezza di quello che significa tornare a un dibattito su temi che non eravamo più abituati a sostenere. Dobbiamo imparare a gestire eventi complessi e di forte intensità. Le università sono uno spazio di libero di dialogo inclusivo, occorre sapere ascoltare tutti e poi fare sintesi. Le situazioni che escono dall’ordinario esigono però protocolli di sicurezza preventivi".
Questo fermento le piace o la preoccupa?
"Sono per il ritorno al confronto, perché gli ultimi anni sono stati caratterizzati da una fortissima individualizzazione. Il valore di una comunità, la sua ricchezza, è legata alla diversità del pensiero".
Cosa rende attrattiva un’università oggi?
"Essere europea e internazionale, offrire qualcosa di unico. Il Politecnico di Torino è un luogo ad elevata densità di sapere al centro della città e porta dritto nel cuore delle imprese. Nel 2030 le università percepiranno il calo demografico italiano, dobbiamo essere pronti ad attrarre qui gli studenti da tutti i continenti. Nei giorni scorsi abbiamo celebrato i 15 anni di attività della Turin Polytechnic University in Uzbekistan, un bell’esempio di come siamo riusciti a esportare la formazione. Sono nostri studenti l’attuale ministro della ricerca uzbeko, tre rettori di università e molti capitani di industria".
Intanto a Mirafiori lo stabilimento Stellantis si sta svuotando e l’immagine di una cattedrale vuota non incoraggia.
"Tra noi e Stellantis c’è grande dialogo, portiamo avanti il corso di studi in Automotive realizzato con la Fiat, anche se puntiamo soprattutto sullo sviluppo delle piccole e medie imprese. Torino deve continuare a essere la capitale dell’innovazione dell’automotive. Ma è indispensabile un grande patto territoriale, occorrono operazioni importanti sulle aree dismesse pronte a ospitare nuovi centri di ricerca. Se domani ho il semaforo verde per un grande laboratorio che cattura C02 con finanziamento ministeriale e non trovo lo spazio giusto, perdo l’occasione. Prepariamo il teatro, poi portiamo lì le quinte, gli attori e facciamo cominciare lo spettacolo".
Come immagina Torino fra 10 anni?
"Più giovane. Cioè con in tasca la sfida vinta di città universitaria e città laboratorio. La carbon neutrality è la grande scommessa, non solo italiana. Abbiamo gli ingredienti, persino i soldi. Oggi il punto è rendere le città di nuovo vivibili e non si riduce al tema dei 30 all’ora. La smart-city digitale deve informare il cittadino e migliorare la sua vita".
A proposito di respirazione: potremo contare anche su aria più pulita?
"Questa è la vera sfida. L’inquinamento è legato alla geomorfologia del luogo ma anche alla poca consapevolezza sul risparmio energetico. Ricordo che ridurre di un grado la temperatura in casa fa risparmiare l’otto per cento. Dobbiamo avere la percezione delle conseguenze delle nostre azioni, altrimenti i discorsi sulla decarbonizzazione non reggono".
Qual è la cosa peggiore che potrebbe succedere con l’intelligenza artificiale?
"Tranquilli, vince sempre l’uomo. Uno degli usi più intriganti è costringerla a porre alla società e agli scienziati nuove domande"
E il sapere umanistico? Cosà dirà a suo figlio che oggi ha quattro anni se un giorno le comunicherà che vuole iscriversi a Lettere?
"Sarei felicissimo. E guardi che io ho portato alla maturità italiano e filosofia, non fisica o matematica. Il politecnico di Torino ha già dentro di sé il percorso delle scienze umanistiche perché è solo capendo che i problemi hanno una matrice sociale che si arriva alla soluzione tecnologica".
Sul cosmopolitismo andate forte. E con le donne? Il Politecnico continua a essere un paese per uomini?
"Negli ultimi anni c’è stato un forte incremento della presenza femminile anche se a me il 30,5% continua a sembrare poco. Contiamo sulle ambasciatrici nel campo della tecnologia, penso a Samantha Cristoforetti. Non guasta ribadire che le donne non hanno svantaggi biologici nell’approccio con la scienza. E che la professione di ingegnere ha una sua grande bellezza unisex".
Quale bellezza?
"Avere una base teorica su cui costruire la realtà. Io sono un fisico tecnico. Ingegnerizzo il processo e lo traduco in cose. Quando mi sono iscritto al Politecnico non avevo così chiaro il mio futuro. Poi ho seguito un corso di fisica applicata e uno di meccanica dei fluidi. E ho capito che le formule studiate fino a due anni prima mi aiutavano a progettare l’irrigazione del giardino e a domare il getto del lavello della cucina".
Ha qualcosa da mandare a dire al governo?
"Il nostro dovere costituzionale è rendere più chiara a tutti l’interpretazione del mondo. Visto che siamo un centro di eccellenza a livello mondiale, usateci".