Mercoledì 8 Maggio 2024

H&M, conti in calo. La sfida, ora, è riposizionarsi

La crisi dei consumi fast fashion ha colpito anche la catena svedese che ora pensa a stretegie alternative

La sede di H&M

La sede di H&M

Roma, 22 marzo 2024 – Cosa sta succedendo al colosso svedese del fast fashion Hennes & Mauritz (H&M)? Se lo sono chiesto in tanti dopo la pubblicazione, poco meno di un mese fa, dei risultati economici realizzati dal brand nel 2023: i numeri hanno confermato una performance ben al di sotto delle aspettative degli analisti, già delusi dall’andamento delle vendite trimestrali nell’ultimo scorcio dell’anno (60,9 miliardi di corone svedesi, contro una stima di 63,5 miliardi).

Le ragioni della crisi

L’annuncio dei dati – accolto con un sonoro -9,5% alla Borsa di Stoccolma – è arrivato contestualmente alla notizia delle dimissioni dell’amministratrice delegata Helena Helmersson, accusata di non essere riuscita a imporre quel cambio di passo che ci si attendeva da tempo. Nel 2023 la società ha dovuto sicuramente fare i conti con l’impatto dell’inflazione sulle spese dei consumatori, nonché con la concorrenza spregiudicata di Inditex, numero uno mondiale del settore, proprietario di Zara e Shein. Tuttavia, dietro c’è anche dell’altro: in parte, la graduale perdita di interesse delle persone nei confronti del fast fashion (i capi di abbigliamento di tendenza, venduti a basso costo e di scarsa qualità); in parte, l’incapacità di H&M di reinventarsi e riposizionarsi.

Ascesa e declino del fast fashion

Oggi H&M conta circa 150mila dipendenti in tutto il mondo e possiede vari marchi, tra cui Cos, che propone abbigliamento dalle linee basic e rigorose, sia da uomo che da donna; il più eccentrico & Other Stories; e Arket, dal gusto classico. Tutti i brand sono venduti all’interno dei punti vendita H&M e sono accomunati dai prezzi piuttosto bassi: sia pur con alcune differenze, rispecchiano alla perfezione le dinamiche del fast fashion. Nato negli anni Novanta, il concetto di ‘fast fashion’ (letteralmente, ‘moda veloce’) si riferisce a quel modello di business in grado di convertire rapidamente design e tendenze in capi di abbigliamento economici e facilmente reperibili, con un flusso continuo e incessante di nuovi pezzi sul mercato. Se questo paradigma ha saputo, da un lato, rendere la moda più accessibile, riproducendo velocemente i modelli visti sulle passerelle nelle corrispondenti versioni ‘low cost’; dall’altro, ha finito per promuovere il consumo eccessivo e insostenibile dei capi di abbigliamento. È stato dimostrato che, nel mondo, tra il 2000 e il 2015 la produzione tessile è raddoppiata – sebbene la durata di vita dei capi si sia dimezzata – e potrebbe triplicare entro il 2030. Un trend certamente trascinato dal successo mondiale del fast fashion, con conseguenze devastanti sui lavoratori del comparto, costretti a produrre di più e più rapidamente, in condizioni di rischio per salute e sicurezza, per pochi centesimi a capo. L’altra critica rivolta alle aziende del fast fashion riguarda proprio la sostenibilità delle filiere, ovvero di tutto il processo di produzione, dal filato al capo finito, sia dal punto di vista dell’inquinamento ambientale, sia della tutela di diritti umani.

Cosa è cambiato dopo il Covid

La pandemia ha ulteriormente alimentato tali dinamiche, facendo sì che sempre più persone si disaffezionassero al fast fashion e si avvicinassero, ad esempio, al vintage o ai brand artigianali, attribuendo maggiore importanza a temi come l’origine delle materie prime e il controllo della filiera. I nuovi comportamenti di consumo hanno impattato non solo su H&M, ma anche su competitor come Zara e, in parte, Shein, il marchio cinese di abbigliamento a prezzi stracciati, accusato di incentivare lo shopping compulsivo di capi di scarsa qualità, con un impatto ambientale distruttivo. Nel rapporto annuale diramato nel 2021, H&M ha fatto riferimento per la prima volta a un possibile effetto negativo sulle proprie performance se i consumatori avessero iniziato a optare per "prodotti e servizi a basso impatto climatico, realizzati da aziende considerate leader nella sostenibilità”. Da anni H&M cerca di ritagliarsi una nuova immagine proponendo iniziative ‘green’, fra cui, ad esempio, la possibilità di depositare capi inutilizzati nei propri negozi, da destinare al riciclo. Ma anche queste proposte, oggetto di numerose inchieste da parte di associazioni no-profit e testate giornalistiche svedesi, sono servite per tacciare il colosso dell’accusa di ‘greenwashing’.

L’incapacità di reinventarsi

Secondo gli analisti, H&M si è dimostrata finora poco capace di adattarsi all’evoluzione del mercato e dei gusti dei consumatori. Quanto al prodotto, il marchio svedese ha subìto la concorrenza, fra gli altri, di Zara, che le ha strappato la leadership nella ‘parte alta’ del mercato del fast fashion; quanto ai prezzi, H&M ha dovuto piegarsi alla concorrenza dell’ultra low cost digitale di Temu e Shein, che hanno invece conquistato la parte bassa, vendendo online capi e accessori a pochi euro. Il colosso svedese ha scontato, infine, una rete di negozi sovradimensionata rispetto alle proprie capacità di vendita: negli anni, cioè, ha aperto più store sia rispetto ai marchi concorrenti, sia rispetto a quanto riuscisse effettivamente a vendere. A tal proposito, la società ha reso noto che "la rete di negozi in alcuni mercati continuerà a ridursi, tuttavia, su base globale, ci saranno alcune aperture in grado di bilanciare il numero di chiusure nette”.

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