Venerdì 8 Novembre 2024
MICHELA SACCHETTI
Economia

“Gli italiani abbandonano la dieta mediterranea. Sempre più carne a tavola. Pesanti conseguenze”

Giulia Innocenzi, giornalista che ha realizzato il documentario “Food for profit” sulle condizioni negli allevamenti intensivi

Giulia Innocenzi

Giulia Innocenzi

Roma, 27 maggio 2024 – La produzione di carne e formaggi? Un questione economica e politica che annoda i suoi fili a Bruxelles, dove la Commissione e il Parlamento europeo sempre più spesso si occupano dei temi alimentari. Sullo sfondo c’è un dato statistico: “Mangiamo sempre più carne, oggi Il triplo della carne dei nostri nonni, mentre la dieta Mediterranea di cui l’Italia è portabandiera nel mondo, nel Belpaese è seguita soltanto il 10% della popolazione”. Lo spiega Giulia Innocenzi, giornalista e scrittrice, in un documentario intitolato ‘Food for profit’ e realizzato insieme al regista Pablo D’Ambrosi che testimonia gli intrecci tra allevamenti intensivi, finanziamenti e norme europee e consumo eccessivo di carne.

Innocenzi, davvero abbiamo abbandonato la Dieta Mediterranea? Cosa glielo fa dire?  

“In Italia oggi il consumo di carne si aggira intorno agli 80 chili di carne a testa l’anno. Significa che sono consumi in linea con la media europea e questo significa anche che non è vero che la dieta mediterranea, (in cui si prevede che consumo di carne sia all’apice della piramide, quindi sia un consumo molto basso rispetto a frutta, verdura, cereali meglio se integrali) viene fatta dalla popolazione. Infatti diversi studi dicono che soltanto circa il 10% consuma una dieta mediterranea. Significa che gli italiani in generale consumano troppa carne a differenza di quello che ci dicono i politici per farci stare tranquilli e farci ritenere che il problema della carne non sia un problema italiano!.

Dal documentario “Food for Profit” si evince come in molti allevamenti intensivi gli animali, e spesso anche i lavoratori, vivano in pessime condizioni igienico-sanitarie. Non esistono controlli mirati?  

“I governi europei sono al corrente delle possibili irregolarità che riguardano il settore lavorativo dell’agricoltura e anche degli allevamenti, non a caso la nuova politica agricola comune, in teoria, dovrebbe penalizzare chi viene beccato a sfruttare i lavoratori, proprio perché c’è consapevolezza di questo problema. Ma evidentemente non c’è la volontà politica di affrontarlo davvero perché un cibo a basso costo fa gola a tutti, ai consumatori in primis e quindi alzare il costo imponendo la legalità e il rispetto delle regole ai produttori forse inimicherebbe altri settori, a partire magari anche dai cittadini che si ritroverebbero ad avere i prezzi maggiorati. In Italia sappiamo che c’è il caporalato, lo sapevamo meno rispetto agli allevamenti. E quello che ha mostrato il nostro infiltrato è che questi lavoratori purtroppo sono costretti a lavorare in condizioni orribili, in nero, pagati in contanti e neanche all’ora ma ‘a bilico’, a parte di camion riempito. Ciò significa che non c’è nessuna attenzione per come viene svolto il lavoro. Questi operatori dovrebbero anche seguire dei corsi di benessere animale, quindi sapere come trattare con loro, ma sono portati a lavorare il più velocemente possibile, a detrimento degli animali stessi, una vera e propria guerra tra poveri”.

I sussidi europei agli allevamenti intensivi vengono rilasciati affinché si rispettino gli standard ambientali. Ma come funziona?

 

“I sussidi europei agli allevamenti intensivi vengono rilasciati in diversi modi, sia in maniera diretta sia in maniera indiretta. Indiretta perché vengono rilasciati alle coltivazioni destinate agli animali degli allevamenti e quindi lì basta avere il terreno, coltivare, e si ricevono i soldi per ettari di terreno. Più terreno hai più soldi ricevi. Poi si ricevono soldi a seconda del tipo di allevamento, per numero di capi di bestiame oppure sì, alcuni sussidi europei vengono destinati perché si rispettino gli standard ambientali, non tutti. La responsabilità è diffusa, di chi detiene questi allevamenti, degli esecutori che per quanto mi riguarda sono responsabili fino a un certo punto. I grandi gruppi che comprano i prodotti da questi allevamenti sono i più responsabili perché sono la faccia del prodotto nei confronti dei consumatori, ti raccontano che quel prodotto rispetta l’ambiente e magari anche il benessere animale e poi magari non gli interessa di far sì che i loro prodotti rispettino questi standard”.

Cosa si può fare per cambiare le cose? L’Europa può e dovrebbe intervenire? Quante possibilità ci sono che la realtà degli allevamenti intensivi cambi?  

“Sicuramente noi in primis possiamo cambiare attraverso i nostri consumi. Evitando questi prodotti riduciamo la domanda di questi prodotti e quindi l’offerta di conseguenza si riduce. Il mondo è governato dal nostro portafoglio. Il problema è che ognuno di noi pensa singolarmente e non pensa che siamo una collettività che può davvero incidere sul pianeta e su come funziona. Innanzitutto siamo noi con il nostro portafoglio che possiamo decidere dove va il mercato e grazie alla nostra pressione dal basso possiamo incidere sui nostri politici sia a livello locale, nazionale ma anche europeo. Per cambiare le carte in tavola noi dobbiamo pretendere che gli allevamenti intensivi non ricevano più sussidi pubblici, che non aprano più nuovi allevamenti intensivi, cosa che invece continua a succedere. E bisogna, più in generale, rivedere il concetto dell’economia che ci governa. Oggi il capitalismo mostra diverse falle, non è più un totem indiscutibile, non è più un tabù, ha fallito nella sua promessa di dare più ricchezza a tutti, non è così, le diseguaglianze sono aumentate. Il capitalismo può e deve essere messo in discussione perché non è il modello che ci farà uscire dalla crisi climatica, non è il modello che prevede al suo interno il rispetto di tutte le parti in causa, soprattutto di quelle più deboli, l’unico rispetto che si ha è per una maggiorazione del profitto ed è deleterio per tutti noi, tranne per quei pochi che incassano quel profitto. Quindi è sicuramente il momento di cambiare anche il modello economico”.