A DICEMBRE dello scorso anno, con l’approvazione dell’ultima legge finanziaria, il ministro Urso (nella foto in basso) ha annunciato la creazione di un Fondo nazionale per il Made in Italy. Il fondo, con una dotazione di un miliardo di euro, nasceva con un approccio dichiaratamente interventista. Il governo si dichiarava pronto a diventare imprenditore, acquisendo, a prezzi di mercato, quote di aziende italiane operanti in quelle che venivano definite "filiere strategiche nazionali". Tuttavia, i contorni di queste filiere strategiche non sono mai stati chiariti, anche se una particolare attenzione veniva prestata all’accesso e al riciclo di materie prime critiche per lo sviluppo industriale.
A quasi un anno dall’annuncio, il Fondo non è ancora stato costituito e nessun investimento è stato realizzato. Ci sono diverse ragioni per procedere con cautela. Nella cronaca recente, quando lo Stato italiano è intervenuto capitalizzando imprese private, la maggior parte delle volte lo ha fatto per supportare realtà in crisi, spesso terminale, come nei casi di Alitalia o Ilva. Negli ultimi mesi, il Ministero sembra avere parzialmente rivisto la propria strategia. Oltre a prevedere investimenti in aziende private, una parte delle risorse del fondo potrebbe essere destinata, attraverso una controllata del ministero dell’Economia e delle Finanze (Invimit), alla riqualificazione del patrimonio immobiliare e infrastrutturale pubblico, da mettere a disposizione delle imprese operanti nelle filiere considerate "strategiche".
La politica industriale è tornata al centro del dibattito politico non solo in Italia. Le tensioni geopolitiche e il timore dei governi europei di rimanere tagliati fuori dalla nuova corsa tecnologica hanno spinto la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, a proporre la creazione di un Fondo europeo per la competitività, destinato a investire in tecnologie strategiche su scala continentale. Non è un’idea nuova: già in passato, von der Leyen e il commissario Paolo Gentiloni avevano tentato una iniziativa simile, con risultati prevalentemente simbolici. Nel suo recente rapporto sulla competitività dell’Europa, Mario Draghi stima siano necessari investimenti aggiuntivi per 800 miliardi di euro all’anno, al fine di colmare il divario con Stati Uniti e Cina. Una campagna di investimenti pubblici di tale portata richiederebbe un budget comune e un debito europeo condiviso, strumenti che attualmente non esistono. La vera sfida, dunque, è trovare il modo di utilizzare le limitate risorse pubbliche disponibili per attrarre capitali privati.
Anche il nuovo governo britannico ha annunciato, in questi mesi, la creazione di un National Wealth Fund con una dotazione di sette miliardi di sterline. L’obiettivo è quello di catalizzare investimenti privati in sei settori chiave per la transizione verso un’economia a basse emissioni: l’acciaio e l’idrogeno verdi, la decarbonizzazione industriale, le gigafactories per la produzione di batterie, il sistema dei porti. L’intenzione è investire nelle tecnologie di frontiera per rendere sostenibile l’industria pesante del futuro, evitando delocalizzazioni e dumping ambientale. Per ora, quello britannico è poco più di un annuncio. Nel bilancio pubblico di Londra, come in quello di Roma, le risorse reali disponibili sono molto limitate. È, tuttavia, una novità significativa per un Paese dove lo ’Stato investitore’ è assente da decenni e non esiste una banca pubblica comparabile alla Cassa Depositi e Prestiti italiana.
La proposta del National Wealth Fund offre spunti di riflessione anche per l’Italia. La prima considerazione è che interventi tramite strumenti come il Fondo nazionale per il Made in Italy devono essere guidati da una conoscenza approfondita del contesto industriale, competenza che, nel disegno di questa iniziativa, sembra ancora non esserci. Nel caso britannico, l’obiettivo dichiarato è sostenere la decarbonizzazione industriale. In Italia, invece, stiamo cercando di proteggere un’autonomia strategica nazionale o di riportare le nostre imprese sulla frontiera dell’innovazione tecnologica? Inoltre, manca ancora una solida analisi della struttura industriale delle filiere coinvolte e del tipo di supporto necessario affinché queste possano innovare e competere a livello internazionale. La seconda considerazione riguarda l’uso del capitale pubblico, che deve essere strutturato in modo da catalizzare investimenti privati, assumendo rischi che il capitale privato, da solo, non è disposto ad affrontare. Questa è la principale utilità di un investimento pubblico in imprese private. Inoltre, strumenti di questo tipo per funzionare hanno bisogno di una vera cultura dell’investimento. Il Fondo per il Made in Italy dovrebbe avere un obiettivo esplicito di rendimento economico, almeno superiore al costo del debito pubblico italiano. Allo stesso tempo, al gestore del fondo dovrebbe essere concessa dal governo ampia flessibilità nella scelta dei prodotti finanziari da offrire, nella durata degli investimenti e nei criteri di selezione delle imprese su cui puntare. Le decisioni di investimento devono essere prese da professionisti di mercato, realmente indipendenti dai ministeri.
Infine, il governo auspica che il fondo possa attrarre investitori privati, ma le modalità previste rendono questa possibilità difficile. Sarebbe più realistico pensare che il fondo strutturi singole operazioni per mobilitare investimenti privati. Il futuro del Made in Italy dipenderà dall’innovazione tecnologica. Da oltre un decennio, l’Italia e l’Europa cercano di rilanciare gli investimenti privati. In questi anni è mancata non solo la quantità di investimenti ma soprattutto la qualità. Il ruolo dello Stato come investitore dovrebbe essere quello di dimostrare al capitale privato e agli imprenditori che le imprese italiane possono ancora essere competitive nella transizione digitale.
* Ricercatore associato (Luhnip)