SIMONE BINI SMAGHI, vicedirettore generale della società di gestione del risparmio Arca Fondi Sgr, non ha dubbi: "Il tema della previdenza sta diventando sempre più caldo, in Italia ma anche nel resto d’ Europa", dice descrivendo gli scenari che si aprono all’orizzonte nei decenni a venire. Nonostante siano già state varate molte riforme in passato, per Bini Smaghi (nella foto in alto) il sistema previdenziale pubblico rischia infatti di non reggere più, strozzato dai problemi demografici che rendono sempre più urgenti nuove misure a sostegno dei fondi pensionistici integrativi, capaci di costruire una rendita di scorta per milioni di lavoratori, in vista della vecchiaia.
Dottor Bini Smaghi, quali misure sono dunque necessarie, secondo lei?
"Innanzitutto partiamo da una premessa doverosa: oggi la vita media della popolazione fortunatamente si allunga ma assistiamo purtroppo a un calo delle nascite che non è certo iniziato ieri, bensì almeno 40 anni fa".
Quali sono le conseguenze?
"La realtà è sotto gli occhi di tutti: abbiamo sempre meno giovani in attività mentre la generazione del baby boom, cresciuta nei floridi decenni del dopoguerra, sta andando progressivamente in pensione. Quindi, il sistema previdenziale pubblico fa sempre più fatica a stare in piedi perché i contributi versati da chi è in attività sono insufficienti a pagare gli assegni Inps di chi si è già ritirato dal lavoro o si ritirerà in futuro. Per questo dico che si fa via via più urgente la necessità di incentivare la previdenza integrativa".
In che modo?
"In primo luogo introducendo un sistema di adesione semi-automatica ai fondi pensione da parte dei lavoratori dipendenti. Bisognerebbe cioè stabilire che il Tfr dei lavoratori, cioè la quota di stipendio accantonata tradizionalmente per la liquidazione, verrà destinata automaticamente ai prodotti della previdenza integrativa a meno che non sia lo stesso lavoratore a stabilire il contrario, dichiarando la volontà di mantenere il Tfr nelle forme tradizionali. Anche il governo sta pensando di introdurre un sistema simile e penso vada nella giusta direzione. Oltre a queste misure, si potrebbe stabilirne altre. Ci vorrebbe per esempio maggiore flessibilità nel riscatto del capitale alla fine del periodo di accumulo nella previdenza complementare. Poi bisognerebbe rendere più semplice il trasferimento tra un fondo pensione e l’altro dei contributi versati al dipendente dal datore di lavoro, in modo da rendere più concorrenziale il mercato della previdenza integrativa. Infine, ritengo anche sia opportuno dare maggiore libertà ai gestori dei fondi pensione nell’investire in asset alternativi come il private equity o il private debt che oggi sono sottoposti a limiti stringenti. Del resto, guardando ai dati statistici, vediamo che ancora oggi la quota di lavoratori che hanno aderito ai fondi pensione è minoritaria. Il che non è certamente un dato positivo, non soltanto per le ragioni che ho esposto prima".
Per quali altri motivi?
"Basta leggere l’Agenda Draghi per comprenderli. In Italia e in Europa abbiamo bisogno di una montagna di investimenti, circa 500-800 miliardi all’anno per finanziare la transizione energetica e la trasformazione digitale dell’economia. Purtroppo i debiti pubblici di molti paesi del Vecchio Continente, non solo l’Italia, sono ormai a livelli elevati e i soldi statali non bastano. Occorre che gli investitori istituzionali come i fondi pensione facciano la loro parte nel mettere in campo le risorse".
È ottimista sulla possibilità di una svolta?
"Io sono ottimista per natura ma i problemi sono urgenti. Il sistema è in difficoltà e già negli ultimi anni abbiamo visto toccare diritti acquisiti, visto che molte pensioni dell’Inps non hanno avuto la piena rivalutazione degli assegni in base all’inflazione e hanno perso il loro potere d’acquisto".