"Ho visto la sconfitta, e colpii Giulia". Alessandro Impagnatiello ripercorre con un racconto fiume, lucido e preciso, l’omicidio della fidanzata incinta, Giulia Tramontano, e il successivo occultamento del cadavere. "Tentai di cancellare tutto – prosegue – come se far sparire una persona fosse come buttare una caramella. Cercai di eliminare Giulia dando fuoco. Una parte di me era come se volesse che qualcuno mi vedesse, per fermare tutto. Ora è tutto chiaro, tutto insensato quello che avevo intenzione di fare. Non era come buttare una caramella, non si può polverizzare un corpo".
L’ex barman 31enne torna sul momento del delitto, nell’appartamento a Senago dove viveva con la compagna. Spiega di aver afferrato il coltello con cui Giulia stava tagliando la verdura in cucina: "Lo impugnai e la colpii, poi non so altro". E, quando gli esperti nominati dalla corte d’Assise di Milano gli chiedono di dare una spiegazione dell’omicidio, risponde che "non c’è una motivazione, non ci sarà mai una motivazione". "Ho visto il mio lavoro, la mia famiglia, la relazione con lei, tutto svanito – prosegue riferendosi ai giorni che hanno visto crollare il suo "castello di bugie" e le sue relazioni sentimentali parallele –. Ho visto la mia sconfitta, detto in maniera squallida, agli occhi di tante persone. Poteva essere la famiglia, poteva essere lei, poteva essere chiunque intorno a me. Ho visto la sconfitta, e colpii Giulia".
Dichiarazioni rese nel corso dei colloqui in carcere, riportate nella perizia super partes di 64 pagine con cui il medico legale Gabriele Rocca e lo psichiatra Pietro Ciliberti, nominati dai giudici, hanno stabilito che l’uomo era pienamente capace di intendere e di volere quando, il 27 maggio 2023, uccise con 37 coltellate la fidanzata, 29 anni, il cui corpo venne trovato quattro giorni dopo in un’intercapedine vicino a un box. Una perizia disposta nel processo a carico di Impagnatiello, che rischia una condanna all’ergastolo.
Scavando nella sua personalità, gli esperti rilevano "tratti narcisistici" che "si manifestano con la non tolleranza di fronte all’abbandono" e tratti "psicopatici che si rappresentano come il prevaricare l’altro e manipolare gli eventi". Queste caratteristiche, però, "non configurano una entità psicopatologica ma il "modo di essere nel mondo", cioè la sua specifica struttura di personalità". Mancano, in sostanza, evidenze "a sostegno della presenza di disturbi psichiatrici". Secondo la sua logica, non poteva "accettare lo ’smascheramento’" della sua doppia vita e ha manifestato "una dimensione ’rabbiosa’", tradotta poi in un delitto descritto con "piena lucidità, senza confusione".
Durante i colloqui ha "cercato di fornire una lettura degli eventi centrata sulla sua persona", viene rilevato uno "specifico deficit della consapevolezza emotiva", la cosiddetta "alessitimia" che fu evidenziata anche nella personalità di Alessia Pifferi (all’ergastolo per aver lasciato morire di stenti la figlia Diana a Milano, anche lei ritenuta capace di intendere e di volere). Un "evidente (...) atteggiamento di gestione degli incontri, il tentativo di dettare i tempi, il pesare attentamente contenuti delle risposte, indirizzando l’indagine lungo i binari a sé favorevoli". Nella perizia sono riportati anche i colloqui, successivi all’arresto, con gli psicologi del carcere di San Vittore. "Penso che sabato scorso ero in Montenapoleone a bere un caffè e ora sono qui con un ergastolo", rispondeva il primo giugno 2023, poco dopo essere finito in cella. "L’unico momento di pianto – annotano gli psicologi – è quando pensa alla madre e al fratello maggiore. Nessun accenno al figlio, nessuna emozione visibile".