Giovedì 18 Aprile 2024
GABRIELE MORONI
Cronaca

Reperti (spariti) e processi: chi uccise Lidia?

Stefano Binda, amico della ragazza, arrestato nel 2016 e poi assolto in Cassazione. Ora chiede 350mila euro di risarcimento danni per l’ingiusta detenzione

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di Gabriele Moroni

Milano

"È importante che dicano non solo ‘Tu non hai fatto niente’, ma anche ‘Noi abbiamo sbagliato e abbiamo fatto un danno". Giacca blu, camicia a righe, una borsa, Stefano Binda entra nel Palazzo di giustizia di Milano con i suoi avvocati, Patrizia Esposito e Sergio Martelli. Da uomo completamente scagionato e definitivamente libero, oggi "chiama" lo Stato. Chiede un indennizzo di 303.328 euro per i 1.286 giorni (235,37 euro al giorno) trascorsi in carcere con l’accusa di essere l’assassino di Lidia Macchi, la studentessa di Varese trucidata con ventinove coltellate la sera del 5 gennaio 1987. In più, 50 mila euro per i danni morali e d’immagine alla famiglia. Tre anni e mezzo in cella, dal 16 gennaio 2016, con l’arresto all’alba nella sua abitazione di Brebbia, al 24 luglio 2019, quando l’appello a Milano ribalta e annulla la condanna all’ergastolo inflitta dalla Corte d’Assise di Varese. Assoluzione con formula piena per non avere commesso il fatto, resa definitiva dalla Cassazione nel gennaio dello scorso anno. Binda non è il feroce massacratore di Lidia Macchi. Si oppongono all’indennizzo la procura generale e il ministero delle Finanze con l’Avvocatura dello Stato. I giudici della quinta Corte d’appello si riservano la decisione. Sono trascorsi oltre trentacinque anni senza verità e senza giustizia per la "ragazza con il cuore che cantava", definizione dello scrittore e conduttore televisivo Carlo Lucarelli.

Lidia Macchi non ha ancora 21 anni. È capo scout, impegnata in Comunione e Liberazione, carisma di giovane leader, in contatto epistolare con il fondatore don Giussani. Se ne perdono le tracce dopo la visita a un’amica ricoverata all’ospedale di Cittiglio. La sua Panda viene avvistata da tre amici, fra i tanti mobilitati per le ricerche, sulla collinetta del Sass Pinì, a poche centinaia di metri dall’ospedale, zona squallida e solitaria di tossici, prostitute, discariche abusive. Il corpo di Lidia, straziato da coltellate furiose, è accanto all’utilitaria, coperto da un cartone. Trentacinque anni di inutili rincorse alla verità. Nel mese di giugno del 1987 vengono ascoltati quattro preti varesini e un laico. Anche se i cinque sono soltanto testimoni, la polemica divampa rovente. È scontro aperto, toghe contro tonache. Un esposto contesta l’operato del pm Agostino Abate e chiede che la procura generale avochi a sé l’inchiesta. Non accade. Il caso Macchi rimane a Varese. Ombre. Sospetti. Reperti distrutti o spariti. Un magistrato sanzionato dal Csm. Nel gennaio 2016 un sussulto con l’arresto di Binda, per due anni nello stesso liceo classico di Lidia a Varese e come lei militante di CL. Quasi cinquantenne, abita a Brebbia con la madre, la sorella, il nipote. È stato un ragazzo di intelligenza sfavillante, ha una laurea in filosofia e un passato difficile. È lui il predatore assassino? Binda nega senza esitazioni di essere l’autore della prosa poetica "In morte di un’amica" recapitata alla famiglia Macchi il giorno dei funerali di Lidia e attribuita da subito al killer. Le perquisizioni in casa portano a galla un bric a brac di agende e annotazioni come quella "Stefano è un barbaro assassino" che l’uomo di Brebbia ripudia come non di sua mano. La condanna al carcere a vita e la sua cancellazione in secondo grado. Un’assoluzione che riserva alle indagini e alla prima sentenza giudizi severi come quello di una ricostruzione del delitto "non sorretta da alcun riscontro probatorio, tanto da dover essere colmata, nei suoi vistosi voli pindarici, con ragionamenti ipotetici e dettagli non fattuali".