
Elisabetta Marcigliano fu operata a 53 anni a Ferrara ed è morta a pochi giorni dal suo 56° compleanno. Era il 20 luglio 2021
Roma, 7 luglio 2025 – Elisabetta Marcigliano venne ricoverata nell’agosto 2018 all’ospedale Sant’Anna di Ferrara per fortissimi dolori addominali: la tac segnalò una neoformazione di natura del tutto sospetta di essere già degenerata in cancro e i sanitari prescrissero un ricovero urgente in classe A. Venne operata tre settimane dopo: le fu asportato l’utero, frantumato all’interno del corpo per consentire l’estrazione. Quella tecnica, non prevista da alcuna linea guida, le provocò la dispersione delle cellule cancerogene. Morì nel luglio 2021. I consulenti incaricati dalla giudice civile, alla quale ha presentato ricorso il marito, hanno individuato la responsabilità medica definendo inadeguata la condotta dei sanitari: hanno considerato “apprezzabile, seria e consistente la possibilità di sopravvivenza perduta”. L’iter penale è basato su una ulteriore denuncia per omicidio colposo, omissione d’atti d’ufficio e falso, presentata sempre dal marito: una denuncia che ha portato negli anni a due richieste di archiviazione del pubblico ministero, entrambe respinte da due diversi giudici. Con la seconda, recente bocciatura viene ordinato al pm l’iscrizione dei sanitari nel registro degli indagati e l’elaborazione di una nuova consulenza medico-legale, con periti differenti.
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di MARIO FORNASARI
Elisabetta è morta dopo 34 mesi di consapevole e inaudita sofferenza. Aveva intuito prima di me cosa fosse accaduto in sala operatoria. Il suo corpo glielo diceva. "Mario, non hanno usato precauzioni", mi sussurrava nelle notti tormentate. "Voglio sapere come mi curano" scriveva nel suo diario della malattia. Era nel giusto. Non volevo crederle, forse per il senso di colpa che mi assedia ancora oggi: ero stato io a insistere perché restasse a Ferrara per le cure, mi fidavo dello sguardo di chi ci rassicurò. Ma il tempo ha dato ragione a lei. E io, all’improvviso, mi sono trovato nel castello di inadempienze e silenzi.
Dopo la sua scomparsa tutto è cominciato per caso, con la scoperta di un termine usato una sola volta, tra centinaia di migliaia di parole dei referti medici: "Morcellazione", ossia frammentazione del pezzo operatorio. Nessuno ce ne aveva mai parlato. Non lo conoscevo. Ho studiato. E ho capito. Ho iniziato la mia battaglia nel nome di Elisabetta con la richiesta delle cartelle cliniche. Ho trovato anomalie e modifiche, fogli del diario operatorio annullati e sostituiti. Ho chiesto gli originali. Silenzio. Diffida. Silenzio. Lettere dei legali. Silenzio. Solo mesi dopo, in sede civile, l’ospedale ha dichiarato valida la propria versione "sino a querela di falso". Per avere copia degli originali, avrei dovuto affrontare anni di attesa e spese legali nonostante la consegna degli atti, secondo la legge, sia un diritto. Non ho mollato, nemmeno nei giorni di sconforto. Sono in pensione, ho tempo e avevo qualche risparmio da parte che ha permesso le consulenze di specialisti, avvocati, professori. Ma cosa succede a chi lavora, ha figli e risorse inadeguate ad affrontare rischi del genere?
Cercare verità sanitarie e giustizia significa scontrarsi con un sistema opaco. Secondo Istat, Eurostat e l’Associazione Coscioni, ogni anno muoiono migliaia di persone per errori medici, ritardi, omissioni, mancata prevenzione. Solo il 5% delle segnalazioni arriva in tribunale. Servono professionisti esperti, denaro, determinazione. A volte, il dolore di una perdita si attenua col tempo. Non il mio: continua a lacerare e a porre domande. Di notte, l’incubo ricorrente di Elisabetta sconvolta dalla sofferenza mi fa balzare dal letto. Accendo il computer. Confronto le sentenze, studio l’oncologia, ripasso la statistica. Raccolgo documenti, insisto sino a frantumare la pazienza anche di chi mi assiste. Rifiuto la proposta di transazione dell’ospedale: cerco verità, non il denaro di chi vuole l’oblio.
Nelle mie denunce ho incluso l’ipotesi di falso e omissione. Mancano ancora documenti, il video operatorio è incompleto. Il consulente del pm aveva pubblicato in passato, insieme al chirurgo coinvolto, un lavoro in cui raccomandava l’esatto contrario di quanto fatto. Eppure, ha ritenuto l’intervento congruo. Il pm ha chiesto l’archiviazione ma il giudice l’ha respinta, salvando la mia fiducia nell’istituzione.
Però molti interrogativi restano. Perché tanta fatica per ottenere ciò che è dovuto? Perché deve essere il cittadino – già ferito e spesso solo – a dimostrare l’evidenza di un errore o a sollevare dubbi che dovrebbero essere accertati d’ufficio? Sono domande che si rincorrono nei tribunali ingolfati da iter e carenze. Ma non sono solo mie. Appartengono a chi crede che la giustizia sia un diritto, non una concessione. A chi ritiene che l’etica venga prima dell’autodifesa. A chi ha visto un familiare entrare in ospedale e non tornare. Se cresce il senso di impunità e impotenza, aumenta il rischio che qualcuno voglia farsi giustizia da solo. Ci ho pensato anch’io. È stata una battaglia interiore durissima. Ma l’ho vinta. E oggi la tragedia di Elisabetta si trasforma, dentro di me, in un monito civile. Perché un Paese che accetta l’ingiustizia, senza ribellarsi, è un Paese che rinuncia a se stesso.