Ma Enrico aveva già perso la sua partita

David

Allegranti

Il Pd ha fissato una soglia psicologica per affrontare il dopo elezioni: 20 per cento. Sotto quel numero magico (nel 2018, per la cronaca, i Democratici presero il 18,7) possiamo parlare di sconfitta per Enrico Letta, il presunto rivitalizzatore del centrosinistra. Ma, come ci faceva notare ieri sera un senatore del Pd, "in realtà lui ha perso con qualsiasi percentuale: aveva indicato, all’atto della sua elezione a segretario da parte dell’assemblea, l’obiettivo del campo largo. Ed invece è rimasto isolato. Linea politica fallita. Game over". È vero. Il campo largo era l’orizzonte politico-pedagogico del Nazareno a guida Letta, i cui sette anni a Parigi non sembrano essere stati fin qui molto brillanti. "Ho imparato", recita il titolo di un libro del segretario del Pd. Verrebbe da chiedersi: ah sì, e che cosa? Il campo largo non è mai nato, l’alleanza repubblicana in difesa della Costituzione più bella del mondo nemmeno. Letta ha passato un’estate a costruire il campo stretto della sinistra-centro, senza Carlo Calenda, Matteo Renzi e Beppe Conte, ma Sinistra Italiana, Verdi e Articolo 1. L’apoteosi della sinistra minoritaria. Anziché realizzare per davvero la coalizione TtG, Tutti tranne Giorgia (Meloni), il Pd ha preferito la via dell’alterità. Di Renzi non si fida, Letta, quindi no a Italia Viva. Con Calenda ha provato a fare un accordo che però è durato 24 ore. Conte ha fatto cadere il governo Draghi, quindi no anche al presidente del M5s, che ha concentrato buona parte della sua campagna elettorale nel Mezzogiorno, costringendo il Pd a inseguire, ancora una volta. Politicamente e culturalmente subalterno al populismo dei Cinque stelle, al Pd manca un’identità. Per questo c’è chi nel Pd pensa a Elly Schlein (donna, di sinistra, massimalista) per il dopo Letta. Un momento, quello dell’avvicendamento, che arriverà comunque. Perché il Pd adesso ha bisogno di un congresso.