Pier Francesco
De Robertis
Giorgia Meloni affronta la sua prima conferenza stampa di fine anno con il vantaggio di parlare nel tempo verbale che i politici amano di più, il futuro, e sfrutta il privilegio di poter tracciare il primo bilancio del suo governo quando poco o nulla gli può obiettivamente essere imputato.
Meloni si sofferma quindi poco sulle cose fatte, e si attarda a disegnare l’azione dell’esecutivo per l’anno che verrà. Riesce comunque a delineare una linea in continuità con quella intravista nella prima fase dell’azione del governo di centrodestra, ossia la ricerca di una "normalizzazione" istituzionale e politica su cui non tutti avrebbero scommesso, cui aspirano da sempre le forze nate e cresciute all’opposizione, non disgiunta a una garbata ma orgogliosa rivendicazione delle proprie radici culturali. "Tutto quello che faccio è di destra", ha detto ieri, quasi a rassicurare il proprio mondo circa supposti "cedimenti", e che cedimenti non sono. Rappresentando solamente l’inevitabile scarto tra la pratica corsara della minoranza militante e l’inausaribile fatica del governo.
Le tre ora passate dalla premier davanti ai giornalisti servono in fin dei conti per consolidare quel cammino che ha - nelle sue intenzioni - portato la destra di opposizione a essere destra di governo di una delle nazioni del G7. Abbandonando toni estremistici, accenti populisti e delineando meglio di prima le proprie responsabilità. Questo sì che è un percorso non scontato. Giorgia Meloni di un paio di anni fa praticava un sovranismo convinto, si faceva fotografare con Orban e con Trump, a Bruxelles si asteneva sul Nex generation Eu. Adesso su migranti e Pnrr chiede più Europa, ambisce a essere l’alleato più fedele degli Usa di Biden e il gruppo di Visegrad, per quel che ne rimane, è solo un selfie-ricordo. L’impressione è che il cammino sia solo all’inizio.