Giovedì 25 Aprile 2024

Cuba, i miti della Isla Grande

«IL MIO mojito alla Bodeguita, il mio daiquiri alla Floridita». Ernest Hemingway amava Cuba, dove aveva ristrutturato la tenuta della Finca Vigia e dove teneva ormeggiata la sua barca «Pilar». Il romanzo più popolare, quello che gli dette il Nobel, «Il vecchio e il mare», ha i colori su cui si riflette la Isla Grande, ha i profumi dei sigari per i quali lo scrittore americano andava pazzo. Ha la malinconia che regna all’Avana e dintorni, ma contro la quale le persone combattono, sole o in compagnia, accontentandosi di un gesto, di una vicinanza, come quella raccontata da Hemingway fra Manolo e Santiago. I cubani, che sono ben migliori del loro regime, che sia stata la dittatura di Machado o di Batista o quella dei Castro. Il Papa (così era per tutti Hemingway, anche se il soprannome viene dal periodo parigino) aveva scelto Cuba per amore e perché non si sentiva oppresso dagli editori e dall’Fbi. Ma forse Cuba aveva scelto lui con i colori e l’odore del rum. «Veniva sempre qui, si sedeva al bancone – mi raccontò un vecchio cameriere della Floridita –; aveva sempre un sorriso per noi e una buona mancia. Per ringraziarlo gli preparavo un daiquiri speciale, il Papa doble, più forte. Lo vuole assaggiare?». E così un po’ tutti diventavamo Hemingway ai Caraibi, anche vergando i più diversi messaggi sulle pareti della Bodeguita del Medio.

MA CUBA non è solo il ricordo di Hemingway: la musica ha sicuramente tenuto legato il Paese al resto del mondo molto più di quanto gli americani avessero voluto. E, scherzo del destino, è stato proprio un musicista americano, Ry Cooder – costretto a viaggiare dagli Usa all’Avana via Messico a causa dell’embargo –, a sdoganare i vecchi artisti che avevavano legato la loro attività ai più classici generi cubani. Nel 1996 esce «Buena Vista Social Club», dal nome del locale dei neri chiuso quasi quarant’anni prima da Fidel Castro, ed è un successo mondiale. Nomi come Compay Segundo e Omara Portuondo, Ibrahim Ferrer e Ruben Gonzalez, diventano di culto e tre anni dopo il documentario omonimo di Wim Wenders rende il son, la cumbia, il bolero, il cha cha cha, la trova, non più «musica da ballo», ma genere nel quale si riflette la storia e la cultura di un popolo. Che ha scrittori, cineasti, artisti plastici di straordinaria bravura. Forse, finalmente, troveranno fuori dalle coste della Isla Grande la loro consacrazione.

E L’ISOLA potrà allargare le sue offerte, magari l’hotel Habana Libre tornerà a chiamarsi Hilton e il cocktail Cuba Libre più semplicemente «rum e coca». Ma siamo certi che i viaggi saranno sempre più richiesti e i cayos raggiunti da nuove masse. Perfino la camicia intrisa di sangue di Che Guevara alla caserma Moncada di Santiago finirà nei depliant delle proposte tutto compreso.