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Beta-bloccanti dopo un infarto, dibattito aperto

Le terapie innovative hanno risultati eccellenti. I risultati di uno studio di cinque anni su 5mila pazienti

23/04/2024

È tempo di ridimensionare l’efficacia dei beta-bloccanti nel trattamento dei pazienti colpiti da infarto del miocardio. La terapia è stata messa in discussione nello studio REDUCE-AMI pubblicato sul New England Journal of Medicine, secondo il quale l’uso di questi farmaci non ridurrebbe il rischio di morte o di infarto miocardico nei pazienti colpiti da questa patologia.

 

«L’utilizzo dei beta-bloccanti nel post infarto è una pratica clinica consolidata. L’efficacia terapeutica si basa però, ancora oggi, sull’effetto dimostrato in studi clinici datati, condotti prima della diffusione delle attuali tecniche di rivascolarizzazione con lo stent, dell’implementazione sistematica delle statine, della disponibilità di efficaci farmaci per la prevenzione primaria e secondaria e delle moderne terapie antiaggreganti – afferma Ciro Indolfi, Past-president della Società Italiana di Cardiologia (SIC) – Con i nuovi trattamenti disponibili, il valore della terapia con beta-bloccanti postinfarto è stato messo in dubbio, ma fino ad oggi erano disponibili solamente studi osservazionali che fornivano risultati contrastanti ».

 

«REDUCE-AMI rappresenta, pertanto, il primo studio moderno sui benefici dei beta-bloccanti ed evidenza la mancanza di efficacia di questa terapia nel ridurre il rischio di morte o infarto nei soggetti colpiti da infarto del miocardio, trattati con angioplastica coronarica che hanno una normale contrattilità del cuore», aggiunge Pasquale Perrone Filardi, Presidente SIC. Lo studio REDUCE- AMI, randomizzato, multicentrico e ’in aperto’, ha valutato l’efficacia della terapia con betabloccanti in 5.020 pazienti con età media di 65 anni, con infarto miocardico acuto trattati con angioplastica e con una normale funzionalità contrattile del muscolo cardiaco. La ricerca condotta da settembre 2017 a maggio 2023 in 45 centri in Svezia, Estonia e Nuova Zelanda, ha confrontato il decorso clinico del gruppo dei pazienti.

 

«I risultati hanno mostrato che, a circa 3 anni e mezzo dall’inizio dello studio, l’incidenza di decessi e di un secondo infarto non sono stati significativamente differenti nei due gruppi. Non sono state registrate differenze di rilievo neanche nel numero di ospedalizzazioni per fibrillazione atriale, per insufficienza cardiaca, ictus o per interventi di impianto di un pacemaker», spiega Indolfi. «A seguito di questo studio non sono però stati riscontrati segnali negativi riguardo la sicurezza del trattamento – chiarisce Perrone Filardi –, e riteniamo che le evidenze siano ancora a favore dei beta-bloccanti per i pazienti con infarto miocardico di grandi dimensioni, che presentano insufficienza cardiaca. Per i pazienti con normale contrattilità del cuore, questo studio stabilisce, invece, che non ci sono indicazioni che l’uso di routine dei beta- bloccanti sia vantaggioso. Potrebbe però essere troppo presto per escludere definitivamente questo tipo di terapia e sono, pertanto, necessari ulteriori studi».

 

Ipertensione, due iniezioni l’anno per il farmaco a mRNA

I pazienti che non riescono a tenere a bada la pressione alta in futuro potrebbero avere benefici grazie a trattamenti di lunga durata. Una sfida sanitaria molto seria e importante se si considera che dopo circa un anno, fino il 50% dei pazienti abbandona la terapia antipertensiva e così cala anche la possibilità di proteggere cuore e cervello da infarto e ictus. Una prospettiva di miglioramento arriva oggi da un nuovo farmaco, Zilebesiran, attualmente in sperimentazione, al centro dello studio KARDIA-2 presentato al congresso dell’American College of Cardiology ad Atlanta.

 

«I risultati della ricerca sono molto incoraggianti: la nuova molecola interferisce con l’RNA-messaggero bloccando nel fegato la produzione di angiotensinogeno, una proteina che è in cima alla catena dei processi organici che alla fine provocano il rialzo dei valori pressori. Riducendo la disponibilità di questa proteina nel sangue si abbassa anche la pressione – spiega Pasquale Perrone Filardi, Presidente Società Italiana di Cardiologia –. L’innovativa terapia si somministra con una semplice iniezione sottocutanea simile a quella che si fa con l’insulina e la sua azione dura a lungo perché è sufficiente ripeterla a distanza di 3 o addirittura 6 mesi. Con questa modalità di somministrazione, il trattamento sarebbe in grado di ridurre in modo significativo i valori di pressione massima senza bisogno di altre cure». Lo studio KARDIA-2, in doppio cieco e controllato con placebo, presentato al congresso dell’American College of Cardiology da Akshay S. Desai, professore associato dell’Harvard Medical School, ha valutato l’efficacia e la sicurezza di zilebesiran in 672 pazienti, in aggiunta alle pillole giornaliere.