Un anno, un mese, una settimana e un giorno. C’è un crescendo sulle note della partecipazione democratica che coniuga la Liberazione del 25 aprile 1945 al referendum del 2 giugno 1946: quando gli italiani scelgono la Repubblica ed eleggono l’assemblea incaricata di redigerne la Costituzione, condivisa a scapito di tutte le differenze. All’indomani del ventennio fascista e la guerra, la prima grande prova di suffragio universale sia maschile che femminile fa registrare un’affluenza altissima: l’89,1% degli oltre 28 milioni aventi diritto. Quasi 11 milioni, pari al 45,73%, si confermano monarchici. Ma con 2 milioni di voti in più, il 54,27%, si afferma la Repubblica.
L’opzione repubblicana era già nei piani delle maggiori forze politiche. Nella consapevolezza però della devozione popolare alla monarchia, soprattutto la Dc di Alcide Gasperi volle rimettersi al suffragio. E l’elezione della Costituente rivela quanto la lealtà alla corona fosse trasversale ai partiti, così rappresentati: Dc 35,2%, Psi 20,7%, Pci 18,9% e tutti gli altri – dai liberali ai qualunquisti, dai repubblicani agli azionisti – tra il 6,8 e l’1,4%. Dati che restituiscono profilo e vicissitudini del Paese: ruolo dei partiti di massa, conseguenze della guerra e differenze tra nord e sud, protagonismo delle donne sul lavoro, in famiglia, nella resistenza. L’Italia settentrionale non perdona la compromissione col regime e la defezione di casa Savoia dietro le linee angloamericane dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943. A nord di Roma vince la Repubblica col 66,2%, a sud la monarchia col 63,8%, che arriva al 79 a Napoli, dove un’aggressiva manifestazione monarchica in via Medina finisce con 9 morti e un centinaio di feriti. Quasi 13 dei 25 milioni di votanti sono donne, anche se le elette sono appena 21 su 556. Il conteggio si svolge nella sala della Lupa di Montecitorio, alla presenza degli ufficiali della Commissione alleata e dei giornalisti. Già dal 6 giugno si profila la vittoria della Repubblica, ma i risultati sono proclamati solo il 10. Tre giorni dopo il governo decreta il passaggio di funzioni di capo dello stato dal monarca al primo ministro. Pur senza astenersi dal contestare la legalità del voto, il giorno stesso Umberto II prende il volo per l’esilio in Portogallo.
A cura di Cosimo Rossi