Venerdì 26 Luglio 2024
CHIARA DI CLEMENTE
Magazine

L’uomo che sussurrava a ogni cane del mondo

Cuccioli e vecchi, randagi o imbellettati, sempre veri: i loro ritratti al centro dell’arte di Erwitt, il grande fotografo scomparso a 95 anni

Stile unico, chiaro, il suo filtro è stato l’ironia: guardandoli con ironia ha reso umani i più grandi della terra – da Che Guevara a Marilyn Monroe, da Jfk a Nixon con Krusciov – e i più piccoli: i cani. Cani spelacchiati messicani, cani randagi del Nepal, cani imbellettati newyorkesi, cani dei reali e cani dei mendicanti, dall’Inghilterra a San Francisco, da Manhattan a Parigi. E rubando l’ironia di Strindberg, Elliott Erwitt, il maestro della fotografia in bianco e nero scomparso a 95 anni a New York, sceglieva come epigrafe di uno dei suoi libri di ritratti di personalità a quattro zampe la frase fulminante: "Aborro coloro che hanno dei cani. Sono dei vigliacchi che non hanno il fegato di mordere, loro stessi, le persone".

Elio Romano Erwitz era nato a Parigi il 26 luglio del 1928 da genitori ebrei di origini russe, ed era vissuto in Italia fino al 1938 grazie all’amore del padre per il Belpaese. Nel ’39 la famiglia emigrò verso gli Stati Uniti a causa delle leggi razziali fasciste: "Grazie a Mussolini sono americano", ebbe a scrivere Erwitt nella sua autobiografia. Agli inizi degli anni ‘40 studiò fotografia a Los Angeles, poi cinema a New York. Le prime esperienze da fotografo furono al seguito dell’esercito americano in Francia e in Germania, primi anni ‘50. Tolta l’uniforme, si rivelarono fondamentali gli incontri con colleghi del calibro di Edward Steichen, Robert Capa e Roy Stryker, finché da fotografo free lance iniziò a pubblicare su Collier’s, Look, Life e Holiday. Nel ’53 entrò nella Magnum, che gli consentì di intraprendere progetti fotografici in tutto il mondo. Molti, dedicati ai cani: ne fotografò talmente tanti, di cani, in tutta la sua vita, da riempire con i loro ritratti i libri Son of Bitch (1974), To the Dogs (1992), Dog Dogs (1998), Woof (2005), Elliott Erwitt’s Dogs (2008). Aveva imparato a conoscerli meglio del più ossessionato cinofilo. Li distingueva in base alla nazionalità: "In Francia i cani sono più intellettuali che in America", "i cani americani sono i più informali, se sapessero lavare i piatti si metterebbero al lavoro di buona lena subito dopo cena", i cani britannici sono i più ubbidienti: "avevo un assistente inglese che riusciva a far fare al suo labrador praticamente tutto, anche camminare all’indietro".

Ottimi soggetti per le foto perché "generalmente spontanei per quella loro innocenza o mancanza di esperienza mondana. Forse è per questo che sembrano avere un’affinità naturale con i bambini. Probabilmente possiedono ancora valori naturali che non sono stati corrotti dalla società", scriveva Erwitt in To the Dogs, "ma il cane è molto più occupato di un bambino: deve condurre un’esistenza schizofrenica. Ogni istante è costretto a vivere nello stesso tempo su due piani diversi, barcamenandosi tra il mondo del cane e quello dell’uomo. Ed è sempre disponibile. Il suo padrone lo vuole sempre pronto a donargli affetto, ogni giorno, a qualsiasi ora. Un cane non può mai dire che ha qualcos’altro da fare".

Alla fine i suoi cani-ritratti "sono fotografie non di cani ma di sentimenti, di stati d’animo, di segni grafici – scriveva ancora –. Non importa quale sia il motivo per scattare una fotografia, non si avrà mai l’effetto desiderato se non esprime qualcosa di più profondo, come ad esempio l’atteggiamento verso la vita o i sentimenti verso il mondo che ci circonda". Quale atteggiamento, quali i sentimenti di Erwitt? L’ironia, certo. E tutto quello che nasce dall’avere un giocoso, generoso, umanissimo cuore di cane. "Vi ricordate cosa disse Fellini quando gli fu chiesto dove trovasse personaggi così grotteschi e insoliti? – ricordava Erwitt – “Basta guardare nello specchio“, rispose il regista".