Sabato 27 Luglio 2024

Eroe comune, ucciso da Prima Linea

Domanin e il tragico interrogativo: perché lo Stato non ha protetto i suoi servitori?

Dodici anni fa fu organizzato, a Rimini, un incontro tra due orfani di padre, diventati tali dopo un anno insanguinato come il 1979: Umberto Ambrosoli e Marco Alessandrini, entrambi avvocati. Umberto è il figlio di Giorgio Ambrosoli, l’eroe borghese, il commissario liquidatore della Banca Privata Italiana di Michele Sindona, ucciso l’11 luglio del 1979. Marco invece di Emilio Alessandrini, il magistrato ammazzato il 29 gennaio dello stesso anno da Prima Linea. È da poco uscito un libro che dal titolo Un eroe comune richiama proprio Un eroe borghese che Corrado Stajano scrisse su Giorgio Ambrosoli (1991). L’Eroe Comune è Emilio Alessandrini, a scrivere questo libro è stato suo nipote Igino Domanin.

Domanin andava alle medie, in Sicilia, quando il preside lo fece uscire in anticipo dalla classe per riaccompagnarlo a casa. Era il 29 gennaio 1979 e nel percorso da scuola a casa Igino pensò per diversi minuti che da lì a poco avrebbe saputo di essere diventato orfano, come era già successo ad altri componenti della sua famiglia. Prima che si spalancassero le porte di casa, ebbe invece un sussulto: "È morto lo zio Emilio?". Un cenno di assenso gli confermò che aveva perso lo zio, quello zio entrato presto in magistratura, che si era occupato della Strage di Piazza Fontana e soprattutto della terza istruttoria (quella trasferita a Catanzaro), che ebbe un avvertimento sotto casa quando indagava sui gruppi neofascisti, appena i contorni della strage del 12 dicembre del 1969 iniziarono a chiarirsi, ma che fu ucciso da Prima Linea, il gruppo terroristico di sinistra più sanguinario dopo le Brigate Rosse.

Il commando armato che sparò ad Alessandrini era guidato da Sergio Segio, il capo di Prima Linea, e Marco Donat-Cattin (figlio di Carlo, esponente di spicco della Dc). Domanin ci restituisce con i ricordi di lui bambino quegli anni, così intrisi di violenza, di sangue e di morte. E anche di quel 1979. Come poteva accadere che lo Stato non riuscisse a proteggere suoi valenti servitori, nell’esercizio delle proprie funzioni per risistemare le prime crepe, i primi cocci dell’Italia, uscita dalla Seconda Guerra Mondiale?

Quarantacinque anni dopo riaffiora il solito discorso che chiama in causa il concetto di memoria che non può essere riservato, come ricorda lo stesso Domanin nel libro, a un parco, a una piazza intitolata alla vittima eccellente (come suo zio) di una stagione di sangue. Il travaglio interiore che lo porta a scrivere questo libro, parte dalla necessità di raccontare a chi non c’era quell’aspra stagione. Compito ancora più difficile per un insegnante (come Domanin) nei confronti dei suoi studenti, tenendo conto di aver vissuto in prima persona la perdita di un proprio caro. Solo negli ultimi tempi il racconto degli anni di piombo non passa più solo per i reduci, più o meno folgorati in un percorso di pentimento. Fortunatamente, come nel caso del libro di Domanin.

Matteo Massi