A volte il senso di un accordo lo si legge meglio guardando le reazioni dei protagonisti: Cop28 non fa eccezione. Il fatto che l’Arabia Saudita – il Paese leader dell’Opec, i 13 Stati grandi produttori di petrolio – si sia congratulata "per il grande successo della conferenza sui cambiamenti climatici" la dice lunga. Se il Paese che si è mobilitato, e con successo, contro l’ipotesi di un testo che parlasse chiaramente di "uscita graduale dalle fonti fossili" esulta, allora l’accordo morde poco.
"Per la prima volta le fonti fossili sono nel testo di un accordo di una Cop", dice il presidente della conferenza, Sultan al Jaber, che non a caso è anche presidente della compagnia petrolifera emiratina. Ma è importante anche il modo. E la formula trovata è blanda. Tanto per cominciare il testo rivolge un semplice "invito" ai Paesi membri a intraprendere una serie di azioni. Non c’è alcun obbligo. E poi, invece del chiaro “phase out“ (uscita) dalle fonti fossili c’è un più sfumato “transition away“ (transizione da) fonti fossili "in modo giusto ordinato ed ecquo". È una formulazione più sfumata, la sola sulla quale, grazie a Usa e Ue, e al placet della Cina, è stato possibile trovare – complice una decisiva telefonata del presidente Biden al primo ministro saudita Mohamed bin Salman – un accettabile compromesso a Cop28.
L’intesa nel documento sul “bilancio globale“ non ha così fatto né vinti né vincitori, confezionando un sostanziale pareggio che ognuno legge pro domo sua. Certo è indubbio che per la prima volta in una Cop si parli di superamento delle fonti fossili, è un passo storico. Ma siamo di fronte ad una pura dichiarazione di intenti, da tradurre in atti concreti. E comunque l’eventuale innalzamento degli obiettivi sarà fatto dai Paesi solo nel 2025. Con calma, mentre la crisi climatica corre.
Il testo invita ad "accelerare sulle tecnologie a zero e a basse emissioni, comprese, tra l’altro, le rinnovabili, il nucleare, le tecnologie di abbattimento e stoccaggio del carbonio in particolare nei settori più difficili da abbattere e la produzione di idrogeno" e "riconosce che i combustibili transitori (biocarburanti ed e-fuel, ndr) possono svolgere un ruolo", mentre sul carbone, il “fossile“ più inquinante, è timidissimo ("accelerare gli sforzi per la riduzione graduale dell’energia da carbone non abbattuta", cioè senza sistemi di sequestro della Co2, ndr) e sul metano non va oltre la richiesta di "accelerare e ridurre in modo sostanziale le emissioni entro il 2030". Niente azzeramento.
Tra le misure più importanti suggerite c’è quella di "triplicare la capacità di energia rinnovabile a livello globale e raddoppiare il tasso medio globale annuale dei miglioramenti dell’efficienza energetica entro il 2030". Magari. "Che questo impegno sia stato riconosciuto come una azione prioritaria – osserva Francesco La Camera, direttore generale dell’Irena, l’Agenzia mondiale per le rinnovabili – è una ottima notizia, per la quale abbiamo lavorato. Siamo di fronte ad un compito monumentale, eppure realizzabile". Così promette l’Europa, che con Ursula von Der Leyen sottolinea come questo impegno sia già stato fatto proprio dall’Ue e che "l’accordo di Dubai è l’inizio dell’era post fossile". In teoria, forse. "La conclusione dell’era dei combustibili fossili – dice nel saluto di chiusura il segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres – è inevitabile, piaccia o no. Speriamo che non arrivi troppo tardi".
E questo è ancora il rischio, belle dichiarazioni di principio ma azioni insufficienti a tenerci negli obiettivi di Parigi. Al momento le proiezioni dicono 2.1-2.8 gradi di riscadamento a fronte di un target di 1.5-2 gradi. Gli accordi storici da soli non bastano, servono fatti. Nel frattempo, l’Arabia esulta.