Come il piccolo Buddha, il Dalai Lama sceglie un bimbo americano. E sfida ancora Pechino

Ha otto anni ed è figlio di una famiglia originaria della Mongolia: è tra i mille reincarnati possibili successori dell’anziano leader La decisione dall’esilio indiano riafferma la politica anticinese

Una scena del film 'Piccolo Buddha'

Una scena del film 'Piccolo Buddha'

Roma, 29 marzo 2023 – Ha otto anni, è nato negli Stati Uniti nella famiglia di un ricco uomo d’affari mongolo e sta già innervosendo la Cina, che rivendica anche i diritti sulla metempsicosi. La battaglia sulla successione del Dalai Lama si infiamma sulla testa di un bambino riconosciuto dal leader spirituale del buddismo tibetano come decima reincarnazione dell’ultimo grande venerabile maestro della Mongolia Khalkha Jetsun Dhampa. È già stato consacrato nel monastero di Gandan, nella capitale Ulan Bator. E sebbene non si tratti di una designazione, a Pechino stanno saltando i nervi. Non è un film ma una gigantesca questione geopolitica, anche se la storia assomiglia a quella raccontata da Bernardo Bertolucci in Piccolo Buddha. Jesse era un ragazzino di Seattle di nove anni intrappolato in una trama di sogni e presagi tra la meraviglia e il turbamento di mamma e papà.

La trasmigrazione delle anime al cinema diventava una cosa plausibile: "Nel Tibet noi consideriamo la mente e il corpo come il contenuto e il contenitore... Ora la tazza non è più una tazza ma che cos’è il tè? - È ancora tè -. Esatto. Nella tazza, sul tavolo o sul pavimento si trasferisce da un contenitore all’altro, ma è ancora tè. Così la mente dopo la morte da un corpo si trasferisce a un altro, ma è ancora mente". Scegliere sul serio un piccolo americano viene interpretata più realisticamente come l’ennesima provocazione in chiave anticinese dell’anziano Tenzin Gyatso, che a 88 anni dal suo esilio in India non smette di lottare per la sua patria occupata dal 1950. Pechino vuole indicare una personalità amica del regime, perché è già abbastanza dover sopportare un capo spirituale che parla a una minoranza da un altro paese.

Sull’altro fronte, India, Stati Uniti e tutte le nazioni in cui la diaspora tibetana è particolarmente sentita, vedono nel futuro del Dalai Lama un modo educato per rompere le scatole al partito comunista cinese. Dalla città di Dharamsala, dove vive da rifugiato, il leader secondo cui tutti gli esseri viventi hanno uno scopo in questo mondo e il dovere di tutti è collaborare per rendere la vita più piacevole, ha lanciato la sua amabile stoccata. Da tempo non erano stati riconosciuti lama mongoli rilevanti e il lignaggio rischiava di interrompersi, chi vuole capire capisca. E questo malgrado abbia promesso di vivere fino a 113 anni, età profetizzata da un lama del 18° secolo. E nonostante abbia ripetutamente affermato di non essere convinto se indicare o meno chi sarà il suo successore. Quel bambino è comunque una bella spina nel fianco, disturba da solo più dei mille lama sparsi nella comunità internazionale del buddismo tibetano, tutti maestri, tutti riconosciuti da particolari segnali e indicazioni oracolari come reincarnazioni di precedenti leader spirituali.

L’ex capo politico oggi relegato nel dicastero dell’anima ha un grande cuore e un grande senso dello spettacolo. Nel 2013 aveva sorpreso tutti dicendo che sarebbe stato contento se il suo successore fosse stato una donna, "biologicamente più portata a mostrare amore e compassione". Due anni dopo lo aveva ribadito a costo di passare per sessista e non per un talento delle frasi ad effetto. Donna, sì: "Ma in quel caso dovrà essere molto attraente". Bella fuori perché bella dentro? Bella perché piena di pace e serenità o cosa? E mentre il mondo immaginava un Dalai Lama con la faccia di Sharon Stone, il leader buddista scartava di nuovo di lato sconsigliando ai suoi seguaci di scegliere un successore dopo la sua morte: "Le persone che pensano politicamente devono rendersi conto che l’istituzione, dopo quasi 450 anni, dovrebbe aver fatto il suo tempo e che il buddismo tibetano non dipende da un solo individuo".

Deve averci ripensato, mentre gli Stati Uniti hanno preparato la loro battaglia per una reincarnazione libera dai dettami cinesi con una legge bibartisan, il Tibetan Policy and Support Act, in cui tra la protezione del fragile altopiano e il rispetto dei diritti umani per le imprese americane in Tibet si ribadiva che la scelta del successore spettava alla comunità buddista e al suo leader. A Pechino sono inorriditi all’idea che il capo di una regione già abbastanza fastidiosa potesse essere davvero una giovane Sharon Stone. Figuriamoci un ricchissimo bambino mongolo nato in America.