Il maestro della realpolitik se n’è andato l’altra notte all’età di cento e passa anni. Si chiamava Henry Kissinger. E la definizione tedesca della sua visione geopolitica non è casuale.
Era nato nella Germania nazionalsocialista. Ebreo, emigrò a Londra e poi a Washington sfuggendo ai campi di sterminio. Ma di quel deprecato periodo, alla vigilia della Seconda guerra mondiale, serbò la spregiudicatezza che avrebbe poi trasfuso nella sua azione diplomatica al fianco di due presidenti americani. Di Nixon e di Ford, fra il 1969 e il 1977 come consigliere e poi come segretario di Stato.
DA ROCKEFELLER A NIXON
Realpolitik significa infatti politica realistica basata su considerazioni pratiche e non ideologiche o morali. È quella attuata oggi sia da Putin che da Xi, molto enfatici nel rendere omaggio alla sua memoria (Xi lo aveva ricevuto a Pechino solo quattro mesi fa). Ma l’attuò anche Hitler. E Kissinger ricordava bene il suo patto con l’Urss, nemico mortale, per la spartizione della Polonia prima dell’Operazione Barbarossa. Ebbene il giovane esule ne fu il machiavellico interprete negli anni Settanta. Nixon lo aveva strappato all’avversario Nelson Rockefeller, sconfitto nella corsa alla nomination repubblicana per la presidenza. Era rimasto impressionato da un suo libro Nuclear Weapons and Foreign Policy, pubblicato dalla Harvard University. La tesi di fondo era questa: impensabile una guerra nucleare e perciò le due superpotenze dovevano adattarsi a una coesistenza pacifica, riconoscersi tacitamente mano libera all’interno delle sfere di infuenza. L’Urss poteva continuare a opprimere, reprimere, intervenire "fraternamente" nell’Europa dell’est e in Asia. Gli Usa avevano la leadership della Nato a difesa dell’Europa libera e rivendicavano il controllo del cortile di casa, cioè dell’America Latina.
NESSUNA REAZIONE
Ecco perché la Casa Bianca non reagì, se non verbalmente, quando Breznev schiacciò la primavera di Praga (1968). E perché il Cremlino non reagì, se non propagandisticamente, quando Pinochet cacciò Allende dalla Moneda (1973) a Santiago del Cile e in Argentina alla Casa Rosada si insediarono i generali. Ovviamente la luce verde venne dalla Casa Bianca. Kissinger fu accusato di cinismo. E a ragione. Se fosse stato per lui la pace dei cimiteri nell’Europa dell’est sarebbe durata ancora a lungo. E invece, come si sa, negli anni Ottanta con l’arrivo di Ronald Reagan, la realpolitik venne abbandonata e la distruzione dell’"impero del male" divenne la priorità della politica estera americana.
UNA RESA E NON UNA PACE
Analoga accusa per il Vietnam. Nello stesso anno Kissinger concludeva a Parigi i negoziati di pace con il Vietnam del Nord. Più che di pace si trattò di una resa. Gli americani se ne sarebbero andati dopo 12 anni di una guerra mal concepita e peggio condotta. Kissinger sapeva bene come sarebbe andata a finire. Il nord comunista invase il sud.
L’immagine della fuga degli americani da Saigon avrebbe trovato una vergognosa replica nella fuga degli americani da Kabul su ordine di Biden, due anni fa. Eppure Kissinger (e con lui anche il leader nordvietnamita Le Duc Tho) fu insignito del premio Nobel della pace.
NON ERA STRANAMORE
La pace fu una costante consegna. Qualsiasi pace. Ne esce smentita l’etichetta del dottor Stranamore del famoso film di Stanley Kubrick. Lungi dal cavalcare il missile come nei poster di Peter Sellers, SuperHenry reimpostò su basi realistiche le convenienze della politica estera americana. Prima convenienza: indebolire l’asse Mosca-Pechino. Esattamente il contrario di quanto ha fatto in questi anni l’improvvido Joe Biden, che anzi l’ha rilanciato e ha ricompattato i nemici in un fronte unico. Fu Kissinger a programmare la visita in Cina di Nixon e il ristabilimento delle relazioni diplomatiche (1972). Fu lui a volere Nixon a Mosca e la firma del primo Trattato per la limitazione delle armi strategiche (1972). Fu lui a creare le premesse di una tregua nella guerra dello Yom Kippur (1973). Per un momento si sperò che in Medio Oriente fosse possibile la pace. Illusione come si sa.