Mercoledì 24 Aprile 2024

Il 2023 amaro della pera. Filiera in crisi: la produzione crolla del 75%

C’È UN’OMBRA minacciosa che si aggira nei frutteti d’ Italia, per ora nessuno è riuscito a neutralizzarla del tutto anche...

Il 2023 amaro della pera. Filiera in crisi: la produzione crolla del 75%

Il 2023 amaro della pera. Filiera in crisi: la produzione crolla del 75%

C’È UN’OMBRA minacciosa che si aggira nei frutteti d’ Italia, per ora nessuno è riuscito a neutralizzarla del tutto anche se si sono coalizzati produttori, associazioni, ministero, esperti del settore. Una una task force completa. È la crisi della pera, un frutto che può essere considerato ambasciatore del nostro Paese sulle tavole d’Europa e che rischia, se non l’estinzione, una drastica riduzione produttiva, peraltro già in atto, e il sorpasso da parte delle importazioni. La crisi è profonda e coinvolge soprattutto le grandi aree frutticole del Nord, ma soprattutto l’Emilia Romagna che con le province di Modena, Ferrara, Bologna e Ravenna realizza il 56% del prodotto nazionale attraverso una superficie di 13mila 610 ettari. La pera si salverà? Tutti sperano, lo sforzo collettivo non manca, ma nessuno ha risposte certe e la prognosi per ora rimane riservata. Soffre l’Emilia Romagna, ma non ridono nemmeno Veneto, Piemonte, Lombardia, Friuli Venezia Giulia.

Davide Vernocchi (nella foto a sinistra), imprenditore, coordinatore ortofrutta di Alleanza Cooperative e presidente del colosso cooperativo Apo Conerpo, traccia il quadro a tinte fosche citando una ricerca di Nomisma. "Nel 2023 la produzione ha registrato un crollo del 75% rispetto al 2018, ma la crisi viene da lontano perchè in 12 anni il calo delle superfici coltivate ha avuto un crollo del 35%. Dodici anni fa si producevano in Italia 926mila tonnellate di pere mentre nell’anno appena chiuso la lancetta si è fermata a 180 mila tonnellate. Eppure l’Italia rimane ancora il top player europeo. Il governo ha messo a disposizione 10 milioni di euro ma non sono sufficienti, se si vuole salvare il settore bisogna intervenire ancora perchè va tenuto presente che il calo strutturale continua da anni e sono andati perduti 15 mila ettari". Logico chiedersi quali sono le cause di questo tsunami. "Negli anni passati - spiega ancora il presidente Vernocchi - i nodi erano la ricerca di nuovi sbocchi commerciali e la concorrenza di Paesi emergenti ma negli ultimi anni la scure delle calamità naturali ha messo in ginocchio il settore". Il calo produttivo è causato però da un cocktail di fattori che comprende il cambiamento climatico, l’impatto devastante di nuovi insetti e parassiti che sono killer spietati, nel 2019 la cimice asiatica, nel 2021 le gelate fuori stagione, nel 2022 la siccità sahariana, nel 2023 ancora siccità e il disastro dell’alluvione. Questi attacchi concentrici hanno sparigliato le carte.

Nel 2018 la bilancia commerciale era in attivo con +90mila tonnellate, poi a fine 2022 il saldo tra import ed export ha fatto registrare un pericoloso -48%, mentre le esportazioni sono finite in caduta libera con un -62%. Il 2023 comunque è stato l’annus horribilis con una perdita economica, sempre secondo Nomisma, di 340 milioni di euro, considerando anche il fatto che il calo di qualità in molti casi ha fatto inevitabilmente abbassare i prezzi al consumo. E intanto i costi di produzione si sono alzati mediamente del 17%. Insomma una mazzata pazzesca. Contemporaneamente si è fatta sentire l’aggressività commerciale di Spagna, Argentina, Sud Africa che hanno visto salire i loro volumi d’affari del 70%.

Tutti sono al capezzale della Grande ammalata. Dice Paolo Bruni (nella foto sopra), presidente del Centro servizi ortofrutticoli di Ferrara, che associa aziende italiane leader dell’ortofrutta nazionale più altre della filiera: "Servono tempestivi ristori per evitare che gli agricoltori estirpino intere produzioni di un frutto considerato simbolo e fiore all’occhiello dell’Emilia Romagna e in particolare delle province di Ferrara, Modena, Bologna, Ravenna. È pertanto un patrimonio da salvaguardare". E ancora: "Occorrono dei ristori da finalizzare a coloro che decidono di continuare a produrre pere nonostante le difficoltà. Poi occorre un triplice intervento in prospettiva su innovazione, ricerca e promozione. La pera deve continuare a essere un frutto ambasciatore dell’Italia nel mondo proprio ora che con grande sforzo tecnico diplomatico il nostro paese è riuscito ad abbattere una “barriera fitosanitaria” che impediva alle nostre pere di raggiungere l’area asiatica. Inoltre i produttori in questi anni erano riusciti a compiere quasi un miracolo mettendosi insieme nella grande nuova realtà economica di Unapera rinunciando a campanilismi e rivalità . Sarebbe un errore vanificare tutti questi sforzi. Fino a cinque anni fa le superfici produttive in Italia ammontavano a quasi 30.000 ettari mentre nel 2023 risultano sotto i 23.700 ettari. Ancora oggi l’intero comparto tra dipendenti e indotto diretto e indiretto occupa circa 50.000 persone. Anche per quest’ultimo motivo la pera è un patrimonio da salvare".

Pure Confagricoltura è mobilitata. "Per i produttori in 10 anni tutte le voci di spesa sono lievitate. Il costo unitario per produrre un chilo di pere è passato da 0,45 a 1,15 euro per tutti i fattori che conosciamo, compresi gli incrementi dei prezzi dei prodotti fitosanitari. Chi ha risorse finanziarie spesso si sposta su altre colture meno “rischiose”, altri sono costretti a mettere in vendita l’attività e poche aziende investono in nuovi impianti. Solitamente sono quelle che vogliono mantenere tutte le specie impiegando il know how in una produzione diversificata. In questi casi è quasi certo l’abbandono della Abate Fétel a favore di altre varietà meno remunerative ma più resistenti come la William".

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