Sabato 31 Agosto 2024
CLAUDIA MARIN
Economia

Jobs Act, Consulta allarga le possibilità di reintegro dei lavoratori

Le cause di nullità del licenziamento non sono solo quelle previste “espressamente”. Ora il giudice potrà disporre che è discriminatorio anche per sua interpretazione delle norme

Jobs act, Consulta allarga tutela per licenziamenti (Ansa)

Jobs act, Consulta allarga tutela per licenziamenti (Ansa)

Roma, 22 febbraio 2024 – Il Jobs Act finisce di nuovo nel mirino della Corte costituzionale. E così, dopo le molteplici sentenze di questi anni (andate in varie direzioni), questa volta i giudici della Consulta, con la decisione numero 22 del 2024 hanno dichiarato l'illegittimità costituzionale della norma che prevede il reintegro del lavoratore solo nel caso di nullità del provvedimento espressamente definita. E, dunque, viene ampliata la possibilità di reintegro nel posto di lavoro senza i paletti introdotti per tutti i nuovi assunti (col contratto a tutele crescenti introdotto dallo stesso decreto), come accadeva per tutti i licenziamenti in presenza del vecchio articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. “Siamo contenti che esca questa sentenza”, avvisa Ivana Veronese, segretaria confederale della Uil, precisando che “questa sentenza è un passo avanti nella ridefinizione e anche nel riequilibrio del Jobs Act”. Favorevole alla sentenza anche la Cisl: “Riteniamo sia condivisibile in quanto amplia la tutela dei lavoratori e delle lavoratrici anche ai casi di nullità non espressamente previsti dalla Legge” sottolinea il segretario confederale Mattia Pirulli. Convinto che possa avere “un impatto positivo sul piano operativo senza intaccare i principi fondativi del contratto a tutele crescenti che troppo spesso sono stati oggetto di critica al Jobs Act”. Anche dalla Cgil la valutazione dell’intervento della Corte è positiva, anche se dalla confederazione di corso d’Italia la stroncatura è stata sempre su tutto l’impianto del provvedimento. Ma vediamo nello specifico la norma finita nel mirino della Corte e il senso della sentenza. L'articolo su cui si è espressa la Consulta prevede che il giudice, con la pronuncia con cui dichiara la nullità del licenziamento perché discriminatorio, ovvero perché riconducibile agli altri casi di nullità espressamente previsti dalla legge, “ordina al datore di lavoro, imprenditore o non imprenditore, la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, indipendentemente dal motivo formalmente addotto”. Secondo l'interpretazione della Corte invece questa disposizione “è stata ritenuta illegittima nella parte in cui, nel riconoscere la tutela reintegratoria, nei casi di nullità previsti dalla legge, del licenziamento di lavoratori assunti con contratti a tutele crescenti (quindi a partire dal 7 marzo 2015), l'ha limitata alle nullità sancite espressamente”. Questa limitazione era stata contestata dalla Cassazione che si era quindi rivolta alla Consulta. Secondo la Cassazione il decreto legislativo del 2015 aveva violato l'articolo 76 della Costituzione che regola l'attuazione delle leggi delega. Il Jobs Act fu varato secondo questa procedura, che prevede a monte una legge delega approvata dal Parlamento che indica i principi della riforma, e a valle uno o più decreti legislativi emanati dal governo che attuano gli stessi principi. Secondo la Cassazione, nei principi della legge delega si dice che la riforma avrebbe dovuto prevedere la tutela del reintegro nel posto di lavoro in tutti i casi di “licenziamenti nulli”, senza distinzioni. Mentre il governo, con il decreto legislativo 23, aveva limitato questa tutela ai soli licenziamenti nulli “espressamente” previsti dalla legge, abusando quindi della delega, e non attenendosi alle indicazioni del Parlamento. “Prevedendo la tutela reintegratoria solo nei casi di nullità espressa”, precisano i giudici della Corte Costituzionale, il Jobs Act “ha lasciato prive di specifica disciplina le fattispecie escluse, quelle di licenziamenti nulli sì, per violazione di norme imperative, ma privi della espressa sanzione della nullità, così dettando una disciplina incompleta e incoerente rispetto al disegno del legislatore delegante”. Il senso è che ora il giudice potrà disporre che il licenziamento è discriminatorio anche per sua interpretazione delle norme. E non più solo e esclusivamente nei casi previsti con precisione (“espressamente”) dalla legge.