Venerdì 19 Aprile 2024

Tutta la vita racchiusa in un abbraccio

Matteo

Massi

Dicono che c’è un momento nella vita – che non sempre coincide con l’ultimo istante – in cui ti scorre tutto davanti agli occhi: quello che sei stato, gioia, dolore, rabbia, felicità. È una scossa: vibra tutto il tuo corpo. Ogni singola cellula. Quel momento Gianluca Vialli l’ha vissuto, molto probabilmente, l’11 luglio di due anni fa. A scuotere tutto quello che aveva dentro (e che non sempre si riesce a esprimere con le giuste parole) è stato un abbraccio. L’abbraccio con l’amico di sempre, Roberto Mancini. Lì, in mezzo al campo, sull’erba di Wembley a Londra – che in passato aveva negato a entrambi (non ancora trentenni) una gioia sportiva – a quasi sessant’anni, nel pieno della maturità, regolavano i conti con la vita. Che non poteva essere racchiusa solo in quello spicchio verde dove, solitamente, si prende a calci un pallone. Hanno condiviso, per tanto tempo, la stessa strada. Si sono separati, per motivi di lavoro, ma senza mai allontanarsi. Li chiamavano con un gergo propriamente sportivo i gemelli del gol. Senza fare un torto a chi prima di loro ebbe in sorte quell’espressione. E come i gemelli veri, c’è qualcosa di simbiotico che li univa, li unisce e li unirà. Anche adesso che uno dei due, Gianluca, se ne è andato.

Per capirsi bastava uno sguardo. Un grado di empatia che non è calcolabile. Perché l’empatia è assoluta, in casi come questi. Uno sa cosa pensa l’altro e viceversa. Mancini l’aveva voluto al suo fianco per l’avventura più difficile, da commissario tecnico della nazionale, ma anche perché sapeva (più degli altri) cosa Vialli aveva passato e stava passando. Gianluca era consapevole che quell’Europeo lì, vinto poi a Wembley (proprio dove persero la Coppa Campioni con la Sampdoria trent’anni prima), poteva essere il suo ultimo giro. La sua last dance. In quell’abbraccio c’è tutto: gioia, disperazione, dolore, paura (per il futuro). E un’eterna (e reciproca) gratitudine.