
Maurizia Quattrone e (nel riquadro) Sara Di Pietrantonio
Roma, 6 giugno 2018 - «Quella notte ero il funzionario reperibile della squadra mobile di Roma. All’alba i ragazzi in turno su strada mi hanno chiamato per avvisarmi del rinvenimento del cadavere semicarbonizzato di una giovane donna. E questa è una cosa che non dimenticherò mai e che mi porterò per sempre dentro».
Maurizia Quattrone, commissario capo della squadra mobile, fu tra i primi, all’alba del 29 maggio 2016, a giungere a via della Magliana, a Roma, poco dopo l’omicidio della 22enne Sara Di Pietrantonio, strangolata e data alle fiamme dall’ex ragazzo, Vincenzo Paduano. La motivazione del premio parla chiaro, anche se con stile burocratico: «Attraverso una complessa attività investigativa, espletata senza soluzione di continuità, la dottoressa Quattrone ed il suo gruppo di lavoro riuscirono a dare un volto all’assassino ed a giungere al suo arresto», per questo motivo e per «l’eccezionale senso di umanità nel lavoro svolto che è andato oltre le normali attività di indagine», Quattrone ha meritato il Premio Simpatia. Il riconoscimento le è stato consegnato alla presenza della madre della ragazza, Concetta Raccuia, lo scorso 4 giugno, in Campidoglio.
Quella notte si sente di aver fatto qualcosa che va ‘oltre le normali attività di indagine’? «Dal punto di vista delle modalità con cui è stata svolta l’indagine quello che è stato fatto rientra nelle nostre competenze e professionalità da investigatori. Probabilmente la motivazione del premio allude al fatto che, dovendo intervenire nell’omicidio brutale di un’altra donna, anche se da poliziotto devi restare lucida, professionale e orientata nell’organizzare la gestione delle indagini, indubbiamente, da donna, non puoi non ascoltare le emozioni del cuore, la rabbia e la voglia di dare giustizia».
Questo aspetto ha inciso? «Mi ha dato una determinazione ancora più forte nel voler fermare l’assassino. Giunta sul posto ho visto con i miei occhi l’atrocità della scena del delitto con il corpo sfigurato della giovane e bellissima Sara. La scena è stata molto forte. La mamma di Sara era sul posto e ci ha aiutato a orientare subito l’indagine sul delitto passionale parlandoci del suo ex ragazzo troppo geloso».
Com’è stato, in un contesto così tragico, rapportarsi alla madre di Sara? «Un momento che non dimenticherò mai è quando, verso mezzanotte, alla fine dell’interrogatorio Paduano, inchiodato da un punto di vista tecnico, è crollato. Ho chiamato la mamma di Sara e lei piangendo mi ha detto che ci avrebbe baciato uno per uno perché sapeva che l’assassino della figlia era in carcere. Io ora la chiamo ‘mamma Tina’ perché con lei si è creato un rapporto che va al di là di quello professionale. Ci siamo legate in maniera fortissima e abbiamo continuato a sentirci anche dopo l’appello semplicemente perché ci vogliamo bene. È un rapporto che si basa sulla mia totale ammirazione nei suoi confronti per la dignità del dolore di Tina e per la sua capacità di trasformare il dolore in un insegnamento per le altre donne. Da parte sua, invece, vi è una grande riconoscenza anche se ho fatto meno del mio dovere».
Dopo l’omicidio di Sara c’è stato un acceso dibattito riguardo ai testimoni che sono passati senza fermarsi. Lei stessa ha detto che ‘ci vuole coraggio a denunciare ma ci vuole ancora più coraggio a far finta di niente’. «Bisogna stare attenti alla sottovalutazione. Capisco e posso immaginare la paura di fermarsi in una notte buia e in una strada pericolosa però nel dubbio è sempre meglio fare una chiamata alla polizia. Dobbiamo imparare tutti che, specie in questa tipologia di delitti, anche il più piccolo dei segnali non deve essere sottovalutato. Forse, con un intervento tempestivo, Sara si sarebbe salvata».