Domenica 5 Maggio 2024

Coronavirus, la lettera aperta di 50 medici in trincea

Tra i punti toccati dagli esperti nella missiva agli italiani il fatto che i test per tutti non ci sono e l'appello a non andare ora alla ricerca dei colpevoli

Medici in corsia: lettera aperta agli italiani (Ansa)

Medici in corsia: lettera aperta agli italiani (Ansa)

Milano, 16 aprile 2020 - Cinquanta medici, dall'estenuante trincea della lotta al Coronavirus, scrivono una lunghissima lettera aperta agli italiani, in cui toccano vari temi ma che in sostanza invitano a guardare all'emergenza Covid-19  in un modo diverso da quanto fatto finora sull'onda delle emozioni. La loro lettera inizia con una domanda: "E' quasi automatico, prima ancora di cercare di documentare, analizzare e interpretare i fenomeni, dare via alla competizione per la ricerca dei colpevoli. E, di solito, è una tentazione molto veloce in tempi e modi. Ma siamo certi che sia questa la metodologia corretta per trarre conclusioni su eventi così 'nuovi e destabilizzanti'?". 

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Chi sono i camici bianchi in trincea

Figurano diversi nomi di Bergamo, una delle province più colpite dai contagi, ma non solo. Ci sono medici operativi a Catanzaro, Padova, Rimini, Pavia, Napoli, persino nelle svizzere Locarno e Ginevra.  I primi due a mettere la sigla sono Stefano Fagiuoli (Bergamo) e Claudio Puoti (Roma). Ma ci aono anche l'infettivologo del San Matteo di Pavia Raffaele Bruno, il responsabile del Pronto soccorso di Bergamo Roberto Cosentini e quello della rianimazione Luca Lorini; Antonio Gasbarrini del Policlinico Gemelli di Roma; Paolo Antonio Grossi, infettivologo Asst Sette Laghi, università dell'Insubria di Varese; Giuliano Rizzardini dell'ospedale Sacco di Milano.  Sono infettivologi e anestesisti, internisti e gastroenterologi, hanno combattuto il virus negli ospedali, alcuni di loro si sono ammalati, molti sono stati intervistati. E ora prendono carta e penna sentendo il bisogno di analizzare alcuni fenomeni che si stanno verificando, dal "bisogno 'sociale' di additare un responsabile per ogni evento" a quello di "trarre conclusioni a 'partita' in corso". 

Coronavirus, tre consigli

Quella delle "conclusioni affrettate", ammoniscono, "è certamente la cifra distintiva dell'approccio generale che abbiamo osservato fin dall'inizio di quella che poi si è rivelata una pandemia. Pandemia che mai, nei nostri tempi, si era manifestata con questa virulenza e imprevedibilità". Gli esperti offrono tre "consigli per tutti noi: evitiamo conclusioni basate su dati epidemiologici incompleti, rimandiamo la disamina scientifica di quanto accaduto a una fase successiva, in un'ottica di miglioramento e di miglior bilanciamento ospedale-territorio; abbassiamo i toni ed evitiamo i personalismi; operiamo già da oggi affinché la medicina e i medici sappiano riconquistare un ruolo attivo nelle strategie sanitarie volte a garantire salute e benessere". 

Gli errori che abbiamo fatto

Il problema è mondiale, e lo si è visto bene. Per gli autori della lettera aperta, "il primo clamoroso errore di attribuzione di responsabilità è l'aver immediatamente associato la numerosità dei contagiati di un'area come metro di paragone della qualità del sistema sanitario dell'area stessa". Altro aspetto che è stato oggetto di "ardite comparazioni", analizzano i camici bianchi, "è 'l'eccessivo' tasso di ricoveri, che avrebbe finito per peggiorare le cose. La gestione domiciliare, ove possibile, garantirebbe migliori risultati nel contenimento".   Ma poi, fanno notare gli esperti, "c'è la realtà: nelle zone ad alta endemia, circa il 20% dei pazienti che si sono presentati in pronto soccorso non sono sopravvissuti, ben oltre il 50% ha necessitato di supporto ventilatorio anche aggressivo e 'solo' il 20-30% era in realtà dimissibile, seppur con una polmonite. Davvero qualcuno ritiene ancora che, con questi numeri, queste persone si sarebbero potute tenere 'a casa'? Migliaia e più pazienti rappresentano un dramma gestionale per qualunque sistema sanitario del mondo, e stiamo vedendo ora l'immensità del problema a New York".   Altra voce ricorrente che viene presa in considerazione è "che l'Italia avrebbe pagato un prezzo alto per la carenza di posti in Unità intensiva: allora andrebbe spiegato perché la regione italiana che non solo aveva il maggior numero di letti di unità intensive, ma che lo ha incrementato di quasi il 40-50% entro 2-3 settimane, sia ancora una volta la più colpita. O si tratta ancora una volta di 'dimensione del focolaio' e caratteristiche dell'area in cui si attiva?". 

L'invito ai medici: basta polemiche

Gli esperti concludono con un punto che riguarda proprio il mondo in camice. "E' importante - suggeriscono - che tutti gli attori della comunità scientifica evitino in questa fase atteggiamenti polemici. L'unico modo di ripartire sarà nel ri-attribuire alla classe medica e scientifica il ruolo perso nella società pre-Covid-19. La medicina e i medici devono riappropriarsi delle strategie concrete e dell'obiettivo di salute e benessere, riacquistando un potere di negoziazione e un'autorevolezza perduta e troppe volte barattata per qualche vantaggio comunicativo".

Tamponi per tutti? Ecco la verità

 "Ora dire che si devono fare tamponi a tutti è certamente di facile comprensione e raccoglie ovvi consensi. Ma forse si dovrebbe raccontare la verità, e cioè che i test per tutti non ci sono (e dubitiamo ci saranno mai), né risorse organizzative ed economiche per farli. Pertanto dovranno essere considerate strategie 'progressive', mirate a campioni della popolazione", scrivonoo ancora i medici. 

Dunque "il fenomeno 'numero di positivi' dipende da fattori interconnessi e non sempre identificabili. Il primo è il numero di test che sono stati effettuati. Ora, nei piccoli numeri è certamente un fattore concreto e reale. Ma su larga scala, troppo spesso ciò che è giusto fare non è semplicemente sostenibile: le risorse tecniche e di materiali non sono state e non saranno mai sufficienti ad eseguire test a tutta la popolazione. Nell'immediato, mentre è stata in corso la massima emergenza, non sono stati disponibili neanche test sufficienti per 'selezionati' campioni di popolazione. Ricordandoci che in una pandemia ogni negativo al test deve esservi sottoposto periodicamente e ripetutamente: non c'è un modello di automazione che consenta tali milioni di test e non c'è la produzione di reagenti per sostenerli".  La tecnologia, proseguono i medici firmatari della lettera, "ci sta solo recentemente mettendo a disposizione dei test rapidi, più adeguati: ma ancora una volta, la effettiva disponibilità capillare e la sostenibilità economica devono essere attentamente considerate". 

I differenti focolai di Coronavirus

Questi sono giorni di dibattiti accesi, ci si interroga per esempio sui numeri di questa epidemia, si fanno raffronti. Ma per i camici bianchi il cuore del problema è che "i luoghi dove scoppia un focolaio presentano differenze in termini di densità di popolazione, di livello di industrializzazione, di relazioni commerciali internazionali, di presenza di interconnessioni ferroviarie, autostradali o aeroportuali, di fattori orografici che possono facilitare o rendere complesso l'isolamento fattivo e infine di differenze culturali (il fatto di stringersi la mano, la promiscuità fisica come socialmente accettata) e sociodemografiche (numero di componenti famigliari, ossia persone che vivono sotto lo stesso tetto)".

La soluzione? Isolamento personale

"Se qualcuno ritiene ancora che la soluzione di una pandemia di questa portata, possa poggiare principalmente sugli aspetti 'tecnici, sanitari o farmacologici', vive certamente in una falsa illusione", ribadiscono i medici. "Se viceversa, si accetta pienamente il principio che la 'vera' soluzione è socio-epidemiologica, cioè basata sull'isolamento personale (e non 'familiare'), allora la strada appare percorribile. Ma questo implica il credere fermamente nel principio che la comunicazione sia pienamente parte del processo di gestione e cura di questa pandemia, e agire fermamente in tale direzione". 

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