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«Fame d’aria, una via d’uscita per farci tornare a respirare»

La ricerca sulla fibrosi polmonare idiopatica segna un importante passo avanti con i trial di fase III che inizieranno il prossimo autunno

24/05/2022 - di Alessandro Malpelo

La definiscono malattia rara, ma se vai a guardare l’esito delle autopsie ti accorgi che la fibrosi polmonare è piuttosto diffusa, più di quanto si creda. Si manifesta spesso senza una causa apparente. Evolve in maniera progressiva quasi fosse una neoplasia: osservata al microscopio, o davanti al referto del radiologo, ci si accorge però che è un’affezione respiratoria ben diversa dal cancro del polmone.

 

Come avviene in oncologia, per i tumori solidi, le leucemie, i linfomi o il mieloma multiplo, anche qui in pneumologia ci sarebbe bisogno di farmaci ancora più efficaci, per rispondere ai bisogni insoddisfatti e migliorare la qualità della vita delle persone in cura.

 

Hanno destato per questo grande interesse i risultati di uno studio di fase II su una terapia putativa pubblicati sul New England Journal of Medicine. «Abbiamo coordinato a livello mondiale i trial di fase II – ha scritto Luca Richeldi, professore ordinario all’Università Cattolica del Sacro Cuore, che dirige a Roma, al Policlinico Gemelli, un centro di riferimento internazionale sulle fibrosi polmonari – e saremo i coordinatori mondiali anche per la fase III, che partirà in ottobre».

 

Questo farmaco new entry, per ora contraddistinto solo da una sigla (BI 1015550), è un inibitore delle fosfodiesterasi 4b. Dunque, quale sarebbe l’elemento di novità capace di suscitare tanto interesse? Facciamo un passo indietro, per capire da dove partiamo in questa cavalcata attorno alle nuove frontiere della ricerca nel campo delle affezioni respiratorie.

 

 

Che cos’è la fibrosi polmonare

 

La fibrosi polmonare idiopatica (IPF) è una forma di fibrosi polmonare senza una causa identificata. Sotto questo nome va un gruppo di malattie molto eterogeneo che possono essere causate, ad esempio, da inalazioni di polveri, associate a malattie autoimmuni o determinate da fattori genetici. Alla diagnosi di fibrosi polmonare idiopatica si arriva per esclusione, dopo aver valutato le diverse motivazioni plausibili.

 

Si stima che i casi in Italia possano oscillare tra i 30mila e i 50 mila, anche se come tutte le malattie rare anche questa risente del problema della sottodiagnosi (molti casi sfuggono al censimento). Colpisce in genere intorno ai 65 anni, più i maschi e i fumatori, ma anche i non fumatori, aggiungiamo noi, possono ammalarsi di IPF in forma severa.

 

 

Che cosa prescrivere

 

«Negli ultimi anni sono stati introdotti in terapia due farmaci, il pirfenidone e il nintedanib, che rallentano la progressione di malattia del 50% circa; quanto prima vengono iniziati, maggiore la loro efficacia. Sono tuttavia gravati da effetti collaterali, per cui spesso è necessario ridurne la posologia o interrompere il trattamento.

 

Poco prima che entrassero in commercio – ricorda il professor Richeldi – uno studio pubblicato nel 2012 aveva dimostrato che i cortisonici, che utilizzavamo in cronico in questi pazienti, possono addirittura accelerare la progressione di malattia, aumentando i ricoveri». Quello che era stato lo standard di terapia per un decennio (non sostenuto però da un trial randomizzato) si era dimostrato inefficace, e da allora la terapia steroidea è riservata solo alle riacutizzazioni. Negli ultimi anni sono arrivati pirfenidone e nintedanib, ovvero i primi farmaci per la IPF.

 

 

Quali progressi in atto

 

«Pirfenidone e nintedanib – ha scritto ancora il professor Richeldi – non nascono come anti-fibrotici, solo in un secondo momento, si è scoperto che avevano un’azione di rallentamento della malattia, ma sono nati per altre patologie, il nintedanib, un triplo inibitore delle tirosin-chinasi, è usato in oncologia per il tumore del polmone; il pirfenidone, che nasce come antibiotico veterinario, ha un effetto anti-fibrotico per meccanismi d’azione non chiariti.

 

Hanno rappresentato un passo avanti epocale per il trattamento dell’IPF. Ma solo un passo avanti, non la soluzione. Rallentano, ma non bloccano e non guariscono la malattia e inoltre sono gravati di un importante profilo di effetti collaterali che, in almeno un terzo dei pazienti, richiede la sospensione del farmaco».

 

 

Novità in arrivo

 

Il farmaco sperimentale di cui si parla adesso in termini promettenti (BI 1015550) percorre una via molecolare nuova, e potrebbe dunque avere un effetto sia sinergico sia additivo con gli altri due farmaci già utilizzati in clinica, con vantaggi in termini di effetti collaterali, più contenuti, ma deve ovviamente completare l’iter. In vitro e nei modelli animali il nuovo farmaco ha dimostrato di avere sia effetti anti-infiammatori sia anti-fibrotici. Si somministra per bocca, due volte al giorno.

 

«È il primo studio sulla IPF che ha utilizzato un approccio cosiddetto bayesiano – ha sottolineato il professor Richeldi in un colloquio con Maria Rita Montebelli – un approccio che consente di ridurre il numero dei pazienti nel gruppo placebo, utilizzando dei controlli presi da studi precedentemente eseguiti, con il vantaggio di dare risultati solidi in un tempo contenuto, e questo è importante perché può accorciare i tempi di sviluppo dei nuovi farmaci, soprattutto nelle malattie rare».

 

I risultati dello studio, che andranno confermati nella fase III, dimostrano che questo nuovo farmaco è sicuro, sia in combinazione con altre terapie, sia da solo, e nei tre mesi di durata della fase II ha stabilizzato la funzionalità respiratoria dei pazienti esaminati.

 

 

La fibrosi interstiziale come chiave di lettura Un monoclonale per la polmonite da Covid-19

 

La ricerca va avanti, al fine di trovare molecole efficaci e tollerabili, da prescrivere da sole, o in combinazione, nei pazienti con fibrosi interstiziale. «Al momento – avverte il professor Luca Richeldi – sono in corso due studi di fase III, uno con la pentraxina, una molecola ricombinante che agisce sui macrofagi, bloccando l’attività dei profibrotici; l’altro con il pamrevlumab, un anticorpo monoclonale diretto contro un fattore di crescita per il connettivo (quest’ultimo testato ora anche nella polmonite da Covid-19, ndr).

 

Gli studi, entrambi coordinati a livello mondiale dal nostro Centro, sebbene rallentati dalla pandemia, hanno quasi terminato l’arruolamento. Gli studi in fase II, anche questi coordinati da noi, oggetto di pubblicazione su JAMA e su Lancet Respiratory Medicine, potrebbero portare uno o entrambi questi farmaci (a somministrazione endovenosa) nella pratica clinica, ma dovremo aspettare la fine del prossimo anno per acquisire i risultati completi degli studi di fase III».