Giovedì 18 Aprile 2024

Marco Dolfin, chirurgo con l’esoscheletro e atleta paralimpico

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di Letizia Cini

Uscire di casa per affrontare una giornata qualunque e non farci ritorno per settimane… mesi. Quando arriva il grande giorno, ecco la consapevolezza che niente sarà più come prima. Vie d’uscita? Una delle più belle e meno battute porta verso la resilienza, ed è quella imboccata da Marco Dolfin, medico ortopedico, campione paralimpico, chirurgo in carrozzina e padre. Stava andando a lavoro quell’11 ottobre di 11 anni fa, Marco Dolfin: si era da poco specializzato e – novello sposo – era rientrato con sua moglie Samanta dal viaggio di nozze. Di buon mattino arriva la chiamata d’urgenza: deve aiutare un collega in una difficile operazione all’ospedale Don Bosco di Torino, dove lavora da poco. Fino all’ultimo è indeciso se prendere l’auto o la moto. La scelta ricade sulla moto, più agile nel traffico, c’è un’urgenza... Arriverà sì in ospedale, ma in veste di paziente.

L’incidente stradale lo lascia su una sedia a rotelle, ribaltando tutto: prospettive, valori, vita. Inizia per lui un lungo calvario con il rischio - se non la certezza - di non poter ricominciare a operare. Invece, grazie a una speciale carrozzina che gli permette di “stare in piedi“ accanto al tavolo chirurgico, Marco Dolfin, 41 anni compiuti il 6 agosto, ha ripreso e continua a dare il suo lavoro. nel frattempo è diventato atleta paralimpico e padre di due gemelli: Lorenzo e Mattia. Recentemente ha lasciato l’Ospedale San Giovanni Bosco di Torino, "per trasferirmi al centro Delma", racconta.

Dottore, che approccio ha con i pazienti, che la vedono operare dall’alto del suo esoscheletro?

"In realtà si tratta di una carrozzina elettronica verticalizzabile, che si solleva mettendomi in una posizione adatta per stare al tavolo operatorio. Grazie a un tecnico ho apportato le modifiche che mi consentono di alzarmi da solo e, anziché manovrarla con le mani utilizzo un joystick azionabile tramite gomito. I pazienti? All’inizio mi facevo un sacco di problemi, più io dei pazienti, forse: ma adesso non ci faccio più neanche tanto caso. Sono dieci anni che opero così, le voci girano abbastanza e chi viene da me conosce la mia storia".

La sua specializzazione?

"Il ginocchio, ho scelto questo distretto per una serie di motivi e anche perché, da sportivo, conosco l’importanza di avere ginocchia buone".

A proposito di sport, non ha perso la passione.

"Al contrario, per me è stato uno stimolo per andare avanti, rimettermi in gioco: dopo aver perso l’uso delle gambe mi sono detto, “vediamo cosa c’è per me, cosa posso fare ora“. Dal nuoto sono passato al Triathlon (vincendo GrandFinal del circuito nazionale di paratriathlon nel settembre scorso a Bari, ndr)".

Dica la verità, dopo l’ultima vittoria sta già pensando alle Olimpiadi del 2024?

"Un impegno immenso, ma… me l’ha chiesto Lorenzo, uno dei miei figli: “Papà, riuscirai a qualificarti per Parigi 2024?“ e i bambini non possono essere delusi".

Già, perché lei nel 2014 è diventato padre di due gemelli: com’è stato?

"Difficilissimo ed emozionante. Con mia moglie ne abbiamo parlato a lungo e poi abbiamo preso una decisione bellissima, ma che stava costando la vita a Samanta. Fortunatamente poi è finito tutto bene e ora gran parte dei miei pensieri, dei miei progetti, si è spostata su di loro”.

Che domande le fanno i suoi figli?

"Vivono in un mondo in cui i compagni chiedono del loro papà diverso. Ma sono consapevoli e sereni. C’è un episodio, un momento che non scorderò mai: Lorenzo, aveva meno di un anno, mi stava guardando e a un certo punto ha abbassato lo sguardo fissando la carrozzina. Io ho capito, l’ho capito che aveva visto qualcosa di diverso".

Si è mai chiesto “perché a me”?

“All’inizio è inevitabile domandarselo, in un anno passato all’Unità spinale me ne sono poste mille, di domande come questa. Ragionamenti, pensieri che fai per conto tuo, in solitaria, che non fanno bene: a un certo punto ti accorgi di avere bisogno di aiuti esterni. Fortunatamente io li avevo".

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