Lunedì 17 Giugno 2024
SIMONA BALDELLI
Libri

Cara Veronica, che splendida follia

Secondo appuntamento con la rubrica di Simona Baldelli “I nostri libri”: un elogio appassionato per il romanzo "Pelleossa" (minimum fax) di Veronica Galletta che esplora la complessità dell'architettura narrativa e invita alla riflessione sul cambiamento e sulla memoria, con riferimenti a grandi autori e artisti.

Cara Veronica, che splendida follia

Cara Veronica, che splendida follia

Roma, 26 maggio 2024 – Veronica, non ho abbastanza parole per dire la contentezza che m’ha dato il tuo “Pelleossa”.

Innanzitutto, per l’incanto dell’architettura complessa. Le storie una dentro l’altra, come nella realtà, in cui è sufficiente cambiare la soggettiva per non sapere se siamo i protagonisti del nostro libro o comprimari in quelli degli altri. Poi, per portarci a riflettere su quel marasma che fu il periodo fra lo sbarco degli americani in Sicilia e il referendum che cambiò la Monarchia in Repubblica. E come sono stata contenta che tu l’abbia fatto attraverso gli occhi di un bambino, Paolino, e – fra gli altri –, del suo vecchio amico pazzo e saggio, Filippu.

Bisogna avere il candore dei bambini e dei matti per andare incontro al cambiamento senza pregiudizi. A un certo punto della lettura mi sono chiesta se non sia necessario essere smemorati per non fare errori. Giacché questo presente pare dirci che dalla memoria impariamo solo gli sbagli. Mentre i vecchi – i nati vecchi, intendo –, sono convinti che tutto debba cambiare perché nulla cambi. Come diceva quell’illustre scrittore nato nella tua stessa terra.

Non ho mai dubitato che le teste di pietra scolpite da Filippu parlassero e vedessero. Altrimenti perché frequenteremmo mostre, musei pieni di sculture e tele dipinte, se non per ascoltare le loro storie e farci cambiare lo sguardo? E come m’è piaciuta questa tua scrittura fatta di zolfo, mare, sale e sangue. Parole uscite dalle mani ancor prima che dai pensieri.

Fin dalle prime righe stringi un patto col lettore: in questa storia si sta tutti in scena. Ci affidi un ruolo preciso come ai tuoi personaggi, con quei soprannomi cuciti addosso – ingiurie, le chiami – come un costume. Una lingua da imparare, perché il tuo siciliano è molto più di un semplice dialetto. Ti appelli alle nostre coscienze addormentate affinché si possa riscrivere assieme il finale. E per certi lettori – ma tu certamente lo sai –, essere chiamati a un così grande impegno, è una lusinga. Ed è consolante non essere sempre trattati da superficiali zucconi.

Qua e là ho pensato a “Il birraio di Preston” di Camilleri, e non tanto per la lingua quanto per l’urgenza etica; alla martellante cadenza dei pupi e i “cunti” di Mimmo Cuticchio; e alla voce di Carmelo Bene che salta di ottava in ottava quando legge "e la prora ire in giù", per farci salire e sprofondare fra i flutti insieme all’Ulisse di Dante.

Un posto deve essere piccolo piccolo, per essere universale. Bisogna inventare uno sputo di terra e chiamarla Macondo perché tutti vi possano trovare casa. Bisogna andare in scena insieme a delle teste di pietra, per constatare che siamo più goffi e inanimati di loro.

Io, da Santafarra, non me ne sarei andata mai.

Cara Veronica, quanta splendida follia hai messo assieme.