Venerdì 26 Aprile 2024

Il mistero di Caffè? Questione di decreazione

I dubbi sulla sparizione del grande economista avvenuta a Roma nel 1987 continuano a nutrire la letteratura: dopo Ermanno Rea, ecco Carmen Pellegrino

Il mistero di Caffè? Questione di decreazione

Il mistero di Caffè? Questione di decreazione

Mancavano quattro giorni alla Pasqua, il 15 aprile 1987, quando Federico Caffè scomparve per non tornare mai più. Il mistero di Caffè è paragonabile a quello di Ettore Majorana. Sul comodino dell’economista che tenne a battesimo un futuro presidente del Consiglio (Mario Draghi) e che vide morire sotto i colpi della mitraglietta Skorpion delle Brigate Rosse uno dei suoi più valenti allievi (Enzo Tarantelli, una morte che rappresentò per il professore un dolore incolmabile), c’erano gli occhiali e un libro: La scomparsa di Ettore Majorana. Leonardo Sciascia, nel 1975, indagò sulla sparizione del fisico – uno dei ragazzi di via Panisperna – avvenuta nel 1938 che frettolosamente venne considerata un suicidio. Tesi che non convinceva affatto lo scrittore siciliano. Qualche anno dopo proprio per cercare di ricostruire (e capire) che cosa fosse accaduto a Federico Caffè invece, Ermanno Rea (un altro scrittore) avviò un’indagine letteraria (L’ultima lezione) che lo portò a bussare fino alle porte del Vaticano per chiedere se, sotto mentite spoglie e con un’altra identità, Caffè si fosse rifugiato in un convento.

Ma perché a pochi giorni dalla Pasqua del 1987 Caffè decise di sparire per sempre? Di chiudere con un mondo che in generale c non lo convinceva più e anche con il suo mondo che pur, nella sua solitudine di professore che condivideva la casa con il fratello-collega (insegnante di lettere in un liceo romano), gli aveva regalato affetti, stima e apprezzamenti? Sul mistero Caffè mette le mani ora Carmen Pellegrino, un’altra scrittrice, con il libro Dove la luce (La nave di Teseo). A una scrittrice o uno scrittore non si chiede mai di risolvere un giallo e nemmeno un mistero, a maggior ragione se il giallo o il mistero è così intricato, complesso e di difficile soluzione come quello che riguarda uno dei più grandi economisti italiani. Forse il più grande economista keynesiano che la storia del nostro Paese ricordi.

Così in questo libro – che dal titolo doverosamente cita Ungaretti – ci sono almeno tre percorsi. Uno è quello storico che inevitabilmente riguarda Caffè: i suoi ultimi giorni, le sue lezioni, i suoi editoriali per i giornali e lo scoramento di fronte a un mondo in cui non si riconosceva più. A partire proprio dal terreno più familiare e professionale, quello economico, per cui credeva che per ridurre le disuguaglianze e arrivare a una piena occupazione fosse inevitabile un intervento dello Stato ("è l’economia che deve essere al servizio dell’uomo e non viceversa"), di un regolatore, perché non credeva che possibile che il mercato si (auto)regolasse, proprio nel momento più spinto a livello internazionale in cui un neoliberismo sfrenato iniziava a dettare legge: erano gli anni Ottanta, appunto. Una ventata minava anche tutte le certezze con cui si era ricostruita l’Italia dopo la guerra.

Un altro percorso è quello narrativo, l’essenza di un romanzo con il suo intreccio: Pellegrino mette in dialogo un eminente professore (nel profilo non è difficile scorgervi Caffè, appunto) e Milo, uno sconfitto di quella stagione: che puntò i suoi risparmi anche sulla Banca Privata di Michele Sindona, poco prima del crac e dello scandalo. E il Professore e Milo intraprenderanno un viaggio verso Gessopalena, l’Abruzzo, un borgo considerato ormai abbandonato, per assistere al rito della Via Crucis. Il terzo percorso è quello autobiografico, in cui la scrittrice si confronta con suo padre, uno che ci aveva creduto nell’impegno politico (con il Psi, senza mai essere craxiano) e che ora è rimasto nel suo borgo (dimenticato, ma non nei ricordi e nelle nostalgie), tra Campania e Basilicata, a coltivare l’orto.

Non si risolve il giallo Caffè che rimane – è stato considerato morto dal 1998 – ma i tre percorsi appena delineati vengono attraversati dal concetto di decreazione, così come lo argomentò Simone Weil che aveva (anche) un secondo nome: Adolphine (e c’è anche una Adolphine nel romanzo). "Non possediamo nulla in questo mondo – scrisse in uno dei suoi quaderni Simone Weil – se non il potere di dire io. Questo è ciò che dobbiamo rendere a Dio".

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