Roma, 13 settembre 2024 – È un Abatantuono che non ti aspetti, quello che incontri in L’ultima settimana di settembre di Gianni de Blasi, ora nelle sale italiane. È un uomo amareggiato, solo. Un uomo che, al mondo, chiede solo di dare l’ultimo saluto. È vero, Diego aveva già interpretato personaggi drammatici in film come Regalo di Natale di Pupi Avati o Il ragazzo di Calabria di Luigi Comencini. Ma quando lo vediamo sullo schermo, aspettiamo di sentire nella sua voce le vibrazioni dell’ironia, il canto sottotraccia del sarcasmo. Qui invece bisogna aspettare un bel po’, per sentirla. Nel mezzo, c’è un viaggio on the road in Puglia che nonno Diego compie con il nipote, interpretato da Biagio Venditti, 17 anni (nessuna parentela con Antonello).
Diego, colpisce molto l’impatto con il suo personaggio. Un ex scrittore che ha deciso di farla finita. Cosa ne pensa al rig uardo?
"Io penso la stessa cosa che pensa il personaggio: non si può impedire a nessuno di voler smettere di soffrire, di voler smettere di star male. In questo senso, sono d’accordo con Almodóvar e con il suo film, che ha vinto a Venezia".
Il film propone un confronto fra due generazioni, Pietro e il nipote adolescente. In che cosa sente di assomigliare a Pietro, e in che cosa si sente differente?
"Beh, io sono stato fortunato: ho un rapporto bello con figli e nipoti. Ho avuto una famiglia grande, piena di figli che abbiamo educato bene. Ma ho scelto anche le mamme giuste, per loro! Non si fanno i figli a caso, per crescerli infelici. Ci vorrebbe la patente per fare i figli, lo dico sempre. Riusciamo a parlare, a ridere, a stare bene insieme: mi sento un po’ escluso quando usano parole che non conosco più, legate alla tecnologia. Ma loro sanno che sono vecchio, e sono indulgenti, le usano poco…".
Pietro pensa molto alla sua vecchiaia: rimpianti, errori. Le assomiglia?
"No, la vita sua e la mia sono completamente all’opposto! Io ho vissuto benissimo, felice, ho riso tanto, mi sono divertito da matti. Io ho vissuto un’epoca straordinaria: si finivano le serate cantando tutte le sere, si giocava a pallone, si suonava la chitarra, si rideva. Abbiamo fatto tutte le sere le cose che la gente fa di solito a Capodanno. E quindi, mi dispiace invecchiare! La vecchiaia è una malattia che unisce tutti. Invecchiare è brutto, questo è poco ma sicuro. Ma io a tutto penso, meno che a farla finita".
Nel film dice «I ricordi dopo i settant’anni dovrebbero proibirli». È d’accordo?
"Mica tanto. Io ho dei bei ricordi. I ricordi ti fanno venire la malinconia, ma anche non ricordare è come essere lobotomizzati. Senza il ricordo, non sei niente".
Stavolta recita in modo diverso, quasi sempre a voce bassa. È una scelta meditata o istintiva?
"È venuta così: anche in alcune scene in cui mi altero, in cui mi arrabbio, la voce mi manca. Un po’ come accadeva a mia madre quando si arrabbiava: a un certo punto perdeva la voce. Ma c’è un altro motivo. Ho girato tutto il film con dei dolori tremendi, perché all’inizio della lavorazione mi sono rotto un piede. Non potevo fermarmi, perché se mi fermavo io si fermava il film. E allora andavo sul set in sedia a rotelle, e anche la voce risentiva del dolore che stavo provando".
A un certo punto lei tira fuori una esilarante lista di «persone che stanno sull’anima, le comparse di professione, quelli che fanno le foto nei musei…» Quali categorie le stanno davvero poco simpatiche?
"Non amo quelli che danno del tu ai camerieri, quelli che agli eventi sportivi filmano col telefonino invece di guardarli, e quelli che vanno con le infradito e i calzoncini da bagno nei luoghi pubblici".