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Albino Armani: benvenuti nella Terra dei Forti, casa dell'uomo dei cinque fiumi

di PAOLO PELLEGRINI -
4 maggio 2022
Albino Armani

Albino Armani

“Il fiume è una colonna sonora. Un’autostrada: di scambi, un tempo, ma anche di linguaggi, di esperienze, di tecniche semplici ma ingegnose. E per il vino è una risorsa fondamentale”. E non è un caso se proprio sul fiume, l’Adige sempre vivo che è un po’ il Nilo per la Vallagarina e la piana veronese, Albino Armani, 62 anni, trentino di quelle valli, ha voluto impiantare la Conservatoria, la casa-archivio dei vitigni antichi un tempo considerati sfigati e di scarso valore e oggi, grazie a lui e ad altri vigneron illuminati, diventati una doc che può chiamarsi La Terra dei Forti, davvero una bella rivalsa. Albino Armani, l’uomo dei cinque fiumi: dal Mincio del Garda al Tagliamento, all’Isonzo, al Piave passando per l’Adige, la spina dorsale. È l’ultimo (per ora) figlio di una stirpe che fa vino dal 1607, quando un tale Dominico Armani scriveva di voler passare i vigneti ai figli. Con la moglie Egle e il figlio Federico, trentenne, esperienze nel campo editoriale prima di approdare in cantina, guida un piccolo impero da 380 ettari e 2 milioni di bottiglie l’anno per 38 etichette. Sette tenute tra il Trentino (Vallagarina ai piedi del monte Baldo), il Veneto (Val d’Adige a Dolcè, oggi il cuore dell’azienda; Marano in Valpolicella; San Polo di Piave nella Marca trevigiana; Val Belluna) e il Friuli Venezia Giulia (Sequals, il paese di Primo Carnera, e Valeriano), con una bella varietà di vitigni, di vini, di espressioni nella rivalutazione di bellissimi vitigni autoctoni. In più, lui è anche presidente del Consorzio Vini Doc delle Venezie. Armani, che storia raccontano questi quattro secoli di viticoltura? “La storia di una famiglia contadina, senza blasone, senza mai palazzi né ville. Porto con me questo bagaglio di vita di montagna, di terreni piccoli, minuti, in fondovalle come a 5-600 metri sulle marogne della Valpolicella, dove la viticoltura è povera. Io, poi mi sono incaponito nel credere che noi qua non siamo quelli serie B e anche C rispetto alla Piana Rotaliana e poi all’Alto Adige. Gli sfigati dello sfuso, con la Schiava e la Casetta, che noi chiamiamo Foja Tonda, a riempire le bottiglie degli altri. Ho voluto un racconto proprio per queste uve sminuite, mi sono imposto di fare bottiglie di qualità a prezzi che mio padre giudicava fuori di testa. Ho ripreso vitigni che non si filava nessuno, ho riscoperto la storia di un mondo autentico, un territorio sano che è diventato la doc Terra dei Forti, piccolissima ma con 220 biotipi, concreta nell’anima e con una solida base agricola”. E un fiume protagonista. “Sono nato sull’Adige, poi mi sono spostato su altri grandi e piccoli fiumi. Ma l’Adige è la colonna sonora che parla tre lingue, il tedesco il trentino e il veneto, e attraversa culture che riesce a legare, linguaggi ed esperienze in vigna simili per il saperci fare con le piene, le esondazioni, anche gli scambi materiali, quando si lavorava con i barcaioli e le strade sulle alzaie dove io ho voluto ripristinare le ciclabili per far vedere proprio che cosa erano gli scambi. È la mia vita, questa identità di linguaggi di gente che non aveva la licenza elementare ma costruiva opere intelligentissime per la viticoltura di fondovalle, per regimare quello che portavano le esondazioni e l’acqua veniva gestita soprattutto in uscita”. Influenza anche l’uva, il fiume? “Altro che territori sfigati, questa è terra da viti senza portainnesto, la terra di fiume impedisce la riproduzione della fillossera. Una viticoltura arcaica sostenibilissima dice che i vitigni si prestano benissimo, non marciscono per un filo di umidità, neppure i nostri Merlot e altre varietà resistenti. È una sostenibilità che non vuole abusi, con il Consorzio delle Venezie abbiamo bloccato l’espansione di vitigni aggressivi, oggi il Pinot Grigio non si può più piantare nelle 20 doc del Nord Est in nome di una polifonia di tutte le viticolture”. Però lei fa anche Prosecco. “Beh, ho dimostrato che si può vivere deprosecchizzando il Prosecco, se togli il nome vendi lo stesso: il Prosecco è una macchina da guerra ma è un racconto tutto veneto, io l’ho portato più a nord con ottimi risultati ma di Prosecco friulano non parla nessuno, eppure sono territori che possono farlo, la Glera dà risultati importanti. Anche in anfora di cotto di Impruneta, che usiamo nella Marca e in Valpolicella per “debarrichizzare” il Ripasso: materiale che respira ma non è la barrique, dà micro ossigenazione ma non senti il legno, e tocchi con il palato il territorio, potenze e colori di un territorio che valorizzi anche con lo strumento”. Albino Armani che impronta vuole lasciare? “Vorrei che anche mio figlio Federico vivesse dell’idealismo che mi anima, io parto sempre da una cosa non risolta, dare dignità ai miei luoghi. E nella Terra dei Forti si può fare: uno lancia un’idea e fiorisce. Il vino deve essere sincero, ma in giro c’è miopia, egoismo, poca voglia di costruire insieme”.