Ha ucciso a coltellate la moglie davanti ai figli. In quella casa di Torino dove non poteva entrare. E nemmeno avvicinarsi. Da agosto, dopo un arresto per maltrattamenti e qualche settimana di carcere, il tunisino di 48 anni Abdelkader Ban Alaya era stato rimesso in libertà perché ritenuto socialmente pericoloso solo per Roua Nabi, connazionale di 34 anni, la madre dei suoi bambini. Per questo doveva stare alla larga dal perimetro in cui viveva la sua famiglia e ’al guinzaglio’ del braccialetto elettronico. Che in un modo o nell’altro (perché il gps ha perso il segnale, l’aggeggio era scarico o la signora aveva disattivato la app) non ha funzionato. E qui è inevitabile porsi qualche domanda, come fa Luana Zanella, capogruppo di Avs alla Camera che chiede al ministro Piantedosi di "spiegare la circostanza e riferire in generale sui problemi legati all’uso di questo dispositivo". Ecco, che problemi hanno gli aggeggi introdotti in Italia nel 2019 e presentati come la soluzione definitiva per le vittime di stalking e gli episodi di violenza domestica e di genere? Quanto possono sentirsi al sicuro le donne minacciate sapendo che per ragioni imprevedibili – anche una distrazione, o un amoroso ripensamento – rischiano di fare cilecca?
Non è il primo caso. Se anche fosse vero che questa volta l’allarme non è partito dal cellulare di lei, il dispositivo avrebbe dovuto essere geolocalizzato e il killer fermato. E nessuno lo ha fatto. Una vicina lo ha visto sul luogo del delitto verso le 18.30. L’omicidio alle 23.30 dopo una lite. Insomma cinque ore buone per impedire, grazie al progresso della tecnologia, un altro femminicidio. Secondo il marito omicida i due si erano riconciliati dopo il suo arresto per maltrattamenti. Ora dice: "È stato un raptus, lei mi aveva perdonato ed ero tornato a vivere qui". Ma come, con il braccialetto? In teoria, se si fosse avvicinato a meno di una certa distanza, sul cellulare di lei avrebbe dovuto azionarsi in automatico un’app di allarme con cui la donna avrebbe potuto avvisare le forze dell’ordine. Invece niente.
In quella casa urla a tutte le ore del giorno e della notte, conferma Gaia, una vicina: "L’altra sera non ci ho fatto quasi caso finché la figlia non si è messa a urlare a picchiare alla porta". Quando lunedì sera in Barriera di Milano è scoppiato il litigio finito in accoltellamento mortale, nessuno si è allarmato. Tranne i ragazzini che hanno assistito all’assassinio della madre: il più piccolo di 13 anni ha inseguito in lacrime il papà quando è scappato, chiedendo aiuto ai passanti. La più grande, adolescente, ha chiamato terrorizzata i vicini. Roua Nabi è stata colpita al torace ed è morta poco dopo l’arrivo all’ospedale San Giovanni Bosco, i due figli sono stati messi in comunità, l’assassino è stato portato nel carcere di Torino. Fine della storia.
Tremenda, perché oltre a piangere la morte di una mamma e la tragedia di due ragazzini si è costretti a mettere sotto accusa un sistema che finora non ha dato i frutti sperati. Si indaga su cosa non abbia funzionato, il braccialetto non ha fatto il suo dovere: segnalare la presenza dello stalker vicino alla vittima. Tecnicamente si parla di "tracciamento di prossimità" ed entrambi – il potenziale aggredito e l’aggressore – devono indossare il dispositivo. Poi succede come a Concetta, infermiera di 53 anni, uccisa a luglio ad Ancona con 15 coltellate dall’ex marito che aveva nei suoi confronti un divieto di avvicinamento di 200 metri. Il braccialetto elettronico anche in quel caso non ha fiatato. E a Roma, a marzo, la denuncia di una donna che ha denunciato il suo stalker 12 volte e vive nel panico perché il dispositivo "non emette suoni ma gracchia e io sto nel terrore da mesi, so che arriverà a me". O ancora a Treviso, dove una 40enne ha combattuto la sua battaglia con la paura ma pure col ’mobil angel’: "Devo ricaricarlo di continuo perché si scarica in fretta, lancia segnali anomali quando la batteria va sotto il 10%. Sono sempre io quella in allarme".
Viviana Ponchia