Firenze, 28 dicembre 2017 – Stavolta è un podio che tra i post vincitori che lo compongono presenta scarti e distanze davvero minime! Ad ogni modo, sia pure di strettissima misura, vince per il mese di dicembre il post pavesiano Pavese e la gente che non capisce, che qui come di consueto si ripubblica assieme ai vostri commenti. Seguono a ruota, meritandosi l’argento e spartendosi così il relativo piazzamento, Luzi e altri ‘moderni e contemporanei’L’autunno di Rilke , mentre al terzo posto troviamo Palazzeschi e il melodramma. Segnalazione o giusta menzione di merito che dir si voglia, infine, per il post Emily Dickinson e l’immortalità. Una classifica, nel suo complesso, davvero condivisibile e prestigiosa, bilanciata peraltro fra autori italiani e fulgide stelle del Parnaso internazionale.

Tra i vostri commenti dedicati a Cesare Pavese scegliamo quelli di Maria Grazia Ferraris, Duccio Mugnai e Antonietta Puri, precisando però che anche tutti gli altri dimostrano notevole sensibilità e grande intelligenza. Siete diventati davvero dei commentatori esperti! Ecco dunque, nell’ordine con cui abbiamo citato, e cioè Ferraris, Mugnai, Puri, i tre commenti selezionati: “Città e campagna, il pendolarismo insensato e defatigante dell’andare e venire, che perseguita la vita di molti, uccidendo giovinezza e sogni, la rinuncia lacerante, malinconica a vivere una vita completa in sintonia con la natura insieme con la ricchezza della città gaudente, le solitudini e i silenzi, le voglie irrisolte e i sogni e le malinconie voluttuose e perdute: ‘Gella è stufa di andare e venire, e tornare la sera / e non vivere né tra le case né in mezzo alle vigne  / La città la vorrebbe su quelle colline…’. C’è tutto Pavese , la sua inquietudine, il suo male di vivere in questa poesia confessione. Pavese viveva nella città come un adolescente: e fino all’ultimo visse così, molto triste”; “Ravviso una duplice prospettiva di visibilità, che mette in oggetto Gella stessa ed il mondo che la circonda. Appiono due aspetti impenetrabili di una rappresentazione, che vorrebbe essere anche denuncia sociale di un ambiente, il quale non è più coerente a se stesso, ma piuttosto estraniato sia rispetto alla propria essenza sia rispetto all’individuo. Tuttavia, questa poesia così soffocata, troncata nella fioritura compositiva da un prosa lirica, la quale racconta incubi di onirismo, che ormai si è fatto realtà, ferma intelletto e cuore ad uno stato disperante dell’esistere. Tutto è estraneo alla propria identità e alle altre esperienze esterne al proprio squallido microcosmo. Non più campagna, non più città. Il risultato, però, non è la denuncia o l’attacco al sistema, ma una resa totale costruita su artificiose consolazioni: ‘Gella è stufa di andare e venire / e sorride al pensiero di entrare in città / sfigurata e scomposta. Finché le colline e le vigne / non saranno scomparse, e potrà passeggiare / per i viali, dov’erano i prati, le sere, ridendo, / Gella avrà queste voglie, guardando dal treno’. La vita appare un fluido in continuo contrasto, una fragmentazione di singolarità che non si incontrano, non si capiscono, non si cercano”; “A parte la nuova forma di poesia-racconto che Pavese tenta di realizzare in polemica con l’ermetismo, c’è già in questa composizione che fa parte delle prime pubblicazioni, uno dei temi che ne caratterizzeranno tutta l’opera: il dissidio tra l’amara esperienza cittadina e la nostalgia struggente della campagna, ovvero il dissidio tra un’alienante solitudine e un paesaggio che diventa mitico e salvifico, tra il luogo di un mondo adulto in cui ci si stanca di lavoro e il sogno impossibile di una ritorno all’infanzia, a un mondo arcaico, quasi primordiale, ad una natura “animale”… Gella è il simbolo di tutto ciò, ma questo la gente di città non riesce a capirlo. Su questo stesso tema si impernierà anche il suo ultimo romanzo “La luna e i falò”, considerato un po’ il suo capolavoro”.

E anche in questo caso una segnalazione sub specie di citazione che ci pare giusta per il commento di framo: “Gella è stufa di… non vivere né tra le case né tra le vigne’. Il poeta non può che renderci partecipi della sua amara insoddisfazione rispetto ad un destino esistenziale ‘con vista da treno’; e così facendo si fa interprete della comune voglia di ritorno e di abbandono ad una sorta di stato di natura – qui non banalmente da intendere come ‘vita rurale’, ma come ‘eden perduto’ -, dove più non predomini il colore grigio di una vita-non vita da stato di necessità e ‘da terra di mezzo’. Grandissimo Pavese, come sempre”.

Arrivederci, a domani con l’indice annuale dei post 2017 e a domani l’altro con gli auguri di fine anno e i costri commenti più belli del 2017! Che la festa continui e fin da ora auguri di buon 2018!

Marco Marchi

Pavese e la gente che non capisce

VEDI I VIDEO “Gente che non capisce” , “Lavorare stanca” , “Il confino di Cesare Pavese” di Giuseppe Taffarel (1967) , Da “Il mestiere di vivere” , Rarità: Pavese secondo Pasolini

Firenze, 5 dicembre 2017 – Della maturità, una categoria di matrice psicologica, Pavese aveva fatto un mito, un traguardo da raggiungere; a tre parole (tratte però dal “King Lear” di Shakespeare, da un’opera per antonomasia) resta affidato quell’obiettivo e il significato persistente di un esempio: “Ripeness is all”, la maturità è tutto. Fu questo – com’è noto – il mito che costò all’uomo l’esperienza amara del confino e finanche il gesto incontrovertibile e risolutivo del suicidio (a Torino, la notte tra il 27 e il 28 agosto del 1950).

Ma fu questo il mito che alimentò, assieme e al di là delle ideologie professate, una produzione letteraria sistematicamente impostata all’insegna della conoscenza e della coerenza, della necessità dialettica più ferma ed implacabile, del superamento e della crescita. “Ho la certezza – scrisse Pavese quattro anni prima di morire – di una fondamentale e duratura unità di tutto quanto ho scritto o scriverò”.

I temi essenziali attraverso i quali verrà svolgendosi il suo esercizio sono già, nella raccolta poetica che segnò il suo debutto, “Lavorare stanca”, perfettamente enucleati: non rassicuranti certezze ma dure opposizioni, lacerazioni, contrasti, e tra essi città e campagna, agire ed essere, maturità e infanzia: una fenomenologia conflittuale già in grado di costituire gli ingredienti-base di quella scissione costante che verrà progressivamente definendosi come la poetica dell’autore.

Questa divaricazione e questi conflitti li ritroviamo in controluce, lievito ispirativo efficiente, nella bellissima poesia di oggi.

Marco Marchi

Gente che non capisce

Sotto gli alberi della stazione si accendono i lumi.
Gella sa che a quest’ora sua madre ritorna dai prati
col grembiale rigonfio. In attesa del treno,
Gella guarda tra il verde e sorride al pensiero
di fermarsi anche lei, tra i fanali, a raccogliere l’erba.

Gella sa che sua madre da giovane è stata in città
una volta: lei tutte le sere col buio ne parte
e sul treno ricorda vetrine specchianti
e persone che passano e non guardano in faccia.
La città di sua madre è un cortile rinchiuso
tra muraglie, e la gente s’affaccia ai balconi.
Gella torna ogni sera con gli occhi distratti
di colori e di voglie, e spaziando dal treno
pensa, al ritmo monotono, netti profili di vie
tra le luci, e colline percorse di viali e di vita
e gaiezze di giovani, schietti nel passo e nel riso padrone.

Gella è stufa di andare e venire, e tornare la sera
e non vivere né tra le case né in mezzo alle vigne.
La città la vorrebbe su quelle colline,
luminosa, segreta, e non muoversi più.
Così, è troppo diversa. Alla sera ritrova
i fratelli che tornano scalzi da qualche fatica,
e la madre abbronzata, e si parla di terre
e lei siede in silenzio. Ma ancora ricorda
che, bambina, tornava anche lei col suo fascio dell’erba:
solamente, quelli erano giochi. E la madre che suda
a raccogliere l’erba, perché da trent’anni
l’ha raccolta ogni sera, potrebbe una volta
ben restarsene in casa. Nessuno la cerca.

Anche Gella vorrebbe restarsene sola, nei prati,
ma raggiungere i più solitari, e magari nei boschi.
E aspettare la sera e sporcarsi nell’erba
e magari nel fango e mai più ritornare in città.
Non far nulla, perché non c’è nulla che serva a nessuno.
Come fanno le capre strappare soltanto le foglie più verdi
e impregnarsi i capelli, sudati e bruciati,
di rugiada notturna. Indurirsi le carni
e annerirle e strapparsi le vesti, così che in città
non la vogliano più. Gella è stufa di andare e venire
e sorride al pensiero di entrare in città
sfigurata e scomposta. Finché le colline e le vigne
non saranno scomparse, e potrà passeggiare
per i viali, dov’erano i prati, le sere, ridendo,
Gella avrà queste voglie, guardando dal treno.

Cesare Pavese

(da Lavorare stanca)

I VOSTRI COMMENTI

Elisabetta della Sdriscia
Il verso lungo, inarcato, del primo Pavese e già tutti i temi che caratterizzano la sua poetica. Una poesia che scaturisce dal dissidio, dalla lacerazione del vivere, ma che ancora, come Gella, é in grado di sognare. E di farci sognare.

Maria Grazia Ferraris
Città e campagna, il pendolarismo insensato e defatigante dell’andare e venire, che perseguita la vita di molti, uccidendo giovinezza e sogni, la rinuncia lacerante, malinconica a vivere una vita completa in sintonia con la natura insieme con la ricchezza della città gaudente, le solitudini e i silenzi, le voglie irrisolte e i sogni e le malinconie voluttuose e perdute:
“Gella è stufa di andare e venire, e tornare la sera / e non vivere né tra le case né in mezzo alle vigne / La città la vorrebbe su quelle colline…”. C’è tutto Pavese , la sua inquietudine, il suo male di vivere in questa poesia confessione. Pavese viveva nella città come un adolescente: e fino all’ultimo visse così, molto triste.

Lector
“Ripeness is all”… c’è davvero bisogno di rileggere Pavese poeta e prosatore tenendo a mente un grande maestro del tragico come Shakespeare.

Marco Capecchi
Bellissimo questo poetare narrando.

Giulia Bagnoli
Attraverso la storia di Gella, sola con il suo sogno di essere altrove, Pavese descrive l’indifferenza delle persone: “non c’è nulla che serva a nessuno”. Ognuno è solo, sempre, anche se in mezzo agli altri, “ma non basta da solo”.

Antonella Puri
A parte la nuova forma di poesia-racconto che Pavese tenta di realizzare in polemica con l’ermetismo, c’è già in questa composizione che fa parte delle prime pubblicazioni, uno dei temi che ne caratterizzeranno tutta l’opera: il dissidio tra l’amara esperienza cittadina e la nostalgia struggente della campagna, ovvero il dissidio tra un’alienante solitudine e un paesaggio che diventa mitico e salvifico, tra il luogo di un mondo adulto in cui ci si stanca di lavoro e il sogno impossibile di una ritorno all’infanzia, a un mondo arcaico, quasi primordiale, ad una natura “animale”… Gella è il simbolo di tutto ciò, ma questo la gente di città non riesce a capirlo. Su questo stesso tema si impernierà anche il suo ultimo romanzo “La luna e i falò”, considerato un po’ il suo capolavoro.

Duccio Mugnai
Ravviso una duplice prospettiva di visibilità, che mette in oggetto Gella stessa ed il mondo che la circonda. Appiono due aspetti impenetrabili di una rappresentazione, che vorrebbe essere anche denuncia sociale di un ambiente, il quale non è più coerente a se stesso, ma piuttosto estraniato sia rispetto alla propria essenza sia rispetto all’individuo. Tuttavia, questa poesia così soffocata, troncata nella fioritura compositiva da un prosa lirica, la quale racconta incubi di onirismo, che ormai si è fatto realtà, ferma intelletto e cuore ad uno stato disperante dell’esistere. Tutto è estraneo alla propria identità e alle altre esperienze esterne al proprio squallido microcosmo. Non più campagna, non più città. Il risultato, però, non è la denuncia o l’attacco al sistema, ma una resa totale costruita su artificiose consolazioni: “Gella è stufa di andare e venire / e sorride al pensiero di entrare in città / sfigurata e scomposta. Finché le colline e le vigne / non saranno scomparse, e potrà passeggiare / per i viali, dov’erano i prati, le sere, ridendo, / Gella avrà queste voglie, guardando dal treno.”. La vita appare un fluido in continuo contrasto, una fragmentazione di singolarità che non si incontrano, non si capiscono, non si cercano.

Chiara Scidone
Un confronto tra la triste città e la colorata campagna, raccontato attraverso gli occhi di Gella. Gella che è stanca di andare in città e che vorrebbe scoprire mondi nuovi e stare all’aperto. Ma la gente intorno a lei non la capisce, la gente è fredda e distaccata, in città.

framo
“Gella è stufa di … non vivere ne’ tra le case ne’ tra le vigne”. Il poeta non può che renderci partecipi della sua amara insoddisfazione rispetto ad un destino esistenziale ‘con vista da treno’; e così facendo si fa interprete della comune voglia di ritorno e di abbandono ad una sorta di stato di natura – qui non banalmente da intendere come ‘vita rurale’, ma come ‘eden perduto’ -, dove più non predomini il colore grigio di una vita-non vita da stato di necessità e ‘da terra di mezzo’. Grandissimo Pavese.

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